Qualche organo di informazione ha dato conto, alcuni giorni fa, di dati forniti dall’Inail (certamente affidabili) su incidenti e morti sul lavoro riferiti ai primi dieci mesi del 2015. Il dato più eclatante è che gli incidenti mortali tornano a salire dopo molti anni di tendenziale, seppur tenue, calo. Nei primi dieci mesi dell’anno sono morti 729 lavoratori o lavoratrici, contro i 628 dell’anno precedente; a essi vanno aggiunti i 155 deceduti in incidenti stradali direttamente collegati agli impegni di lavoro (trasferimento, trasporto merci ecc.). All’incirca, considerando il numero di giornate lavorative, quasi quattro al giorno.

Vero è che, nello stesso periodo, sono leggermente diminuiti gli incidenti sul lavoro tutti compresi (mortali e non), ma è altrettanto vero che queste statistiche per essere apprezzate nel loro valore reale andrebbero rapportate alle ore effettivamente lavorate, e non, più genericamente, agli occupati, come invece quasi sempre si fa. E, naturalmente, andrebbero formulate computando anche gli eventi “nascosti”, in quanto avvenuti in situazioni di lavoro nero (un morto difficilmente si nasconde, un danno di minore gravità spesso si può attribuire alle più diverse situazioni).

Comunque, soffermandosi sul fatto di maggiore gravità, occorrerebbe riflettere sulle cause reali. Formuliamo qualche ipotesi, astratta, ma non infondata, come dicono le cifre: la ricerca esasperata di maggior produttività, anche a scapito delle normali cautele; la sempre più frequente frammentazione dei cicli produttivi con ricorso ad appalti e subappalti, che sono causa di minor conoscenza, da parte del singolo lavoratore, della complessità e della molteplicità dei rischi che si sovrappongono nello stesso sito produttivo (quelli che tecnicamente chiamiamo “rischi da interferenza”); la scarsa attenzione ai processi formativi relativi ai rischi; i nuovi modelli organizzativi, i nuovi materiali, le nuove tecnologie.

Un’ultima riflessione in tema di malattie professionali. Qui la questione è ancora più complessa, anche solo ai fini del suo monitoraggio: molte patologie possono avere tempi lunghi di incubazione, e ciò pesa tanto più nella situazione italiana, poiché ancora non è stato istituito un documento obbligatorio da cui risulti l’intero iter lavorativo delle persone, che quindi possa fornire indizi sui danni che possono manifestarsi anche a lungo termine rispetto al contatto con determinati materiali o alla pratica di certe condizioni lavorative.

Si dirà: oggi l'emergenza è la mancanza di lavoro, al resto si può pensare poi. Ma è davvero così? Chissà cosa ne penserebbe Marcello De Cecco, uno dei più acuti e lungimiranti economisti italiani scomparso in questi giorni; un grande intellettuale ricco di spirito critico e di senso della storia.