Quale amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne ha mostrato di sapersi muovere con pari agilità nel mondo della finanza, da cui proviene, e in quello dell’industria manifatturiera, cui è approdato. Come comunicatore, ha poi mostrato di saper costruire situazioni che parlano, assieme, a questi due mondi, nonostante che, per natura, obbediscano a logiche diverse quando non opposte. Queste considerazioni possono essere utili per comprendere la strategia comunicativa messa in atto da Marchionne, il 21 aprile scorso, in occasione del cosiddetto investor day. A monte di tutto, c’è la scelta dello spin off, ovvero dello scorporo o, anzi, della separazione, tra auto, da una parte, e camion più scavatrici e trattori, dall’altra.

La Borsa la invocava da tempo
. Perché? Perché le auto, risponderebbe un economista, sono beni di consumo durevole, mentre i veicoli industriali, le macchine movimento terra e le macchine agricole sono beni di investimento. Ne segue che le prime vengono acquistate da singoli consumatori, che non possono permettersi spese eccessive, per le necessità della propria vita quotidiana, mentre i secondi sono acquistati da imprese, piccole o grandi che siano, per poter svolgere la propria profittevole attività. Insomma, per i rispettivi acquirenti le prime sono un bene costoso e via, via deperibile, mentre i secondi costituiscono la premessa necessaria di un lucro d’impresa.

Morale della favola: le autovetture, nella loro grande maggioranza, possono essere vendute solo a un prezzo di poco superiore al costo di produzione. Camion, scavatrici e trattori possono invece essere fonte di ricavi ben maggiori. I produttori delle prime, quindi, possono fare dei bei soldi solo se riescono a produrre e vendere molti “pezzi”. Una casa automobilistica sta in piedi solo se sforna e piazza sul mercato grandi volumi produttivi. E questo è il motivo per cui, come disse già parecchi anni fa l’Avvocato, e come ha ripetuto Marchionne a fine 2008, nel mondo c’è posto solo per 5 o 6 costruttori capaci di produrre da 5 milioni e mezzo a 6 milioni di auto all’anno.

Gli investitori speravano quindi da tempo che la Fiat scorporasse da sé il settore auto, con cui si guadagna poco, mantenendo saldo il controllo su Iveco (veicoli industriali) e Cnh (macchine agricole e movimento terra), ovvero sui settori che, quando arriverà la ripresa, potranno permettere incassi più pingui. Ma ecco la mossa spiazzante di Marchionne. Il quale, di punto in bianco, annuncia dal Lingotto, ove ha convocato gli analisti finanziari per l’investor day, che lo spin off si farà entro l’anno, ma a parti rovesciate.

Nel senso che a uscire da Fiat Spa sarà non l’auto, ma proprio Iveco e Cnh, più quella parte di Fpt (Powertrain Technologies) che costruisce motori per le prime due. Queste tre sigle saranno conferite a una nuova società che, in prospettiva, potrà essere assai remunerativa: Fiat Industrial. Dentro la “vecchia” Fiat resteranno invece l’Auto (comprese Ferrari e Maserati), la componentistica auto (compresa l’altra metà di Fpt) e le altre attività, tra cui la proprietà del quotidiano La Stampa e la partecipazione alla attività editoriali di Rcs (Rizzoli- Corriere della Sera). Questo disegno è stato reso noto solo poche ore dopo l’annuncio dell’arrivo alla Presidenza Fiat del principino John Elkann al posto dell’uscente Luca Cordero di Montezemolo. Insomma, un capolavoro comunicativo. La Borsa vede finalmente quel che voleva vedere: lo spin off.

I settori a più alta redditività non saranno più gravati dal peso opaco dell’auto. L’opinione pubblica vede invece la famiglia Agnelli che, attraverso l’erede più adatto a ricordare l’Avvocato, torna al volante dell’Auto, corpo e cuore della vecchia Fiat. Marchionne è così riuscito a evitare l’impressione negativa che lo spin off avrebbe prodotto sul grande pubblico se la Fiat avesse tenuto dentro di sé Iveco, Cnh e le altre attività, conferendo l’auto a una nuova società. In quel caso, molti avrebbero pensato che la famiglia Agnelli fosse finalmente riuscita a realizzare quel progetto cui si sospetta punti da anni: liberarsi dell’auto.

Ma non si vive di sola comunicazione.
Nella strategia di Marchionne, accontentare la Borsa e ridare lo scettro della Presidenza di Fiat Spa al rampollo prescelto dalla Famiglia, sono due mosse funzionali allo scopo principale: tradurre in fatti le idee enunciate nella famosa intervista rilasciata, a fine 2008, a Automotive News Europe. Ovvero, usare la Fiat come base di partenza nella costruzione di uno di quei 5 o 6 produttori da 6 milioni di auto all’anno.

Ed ecco il piano industriale: nel 2014, la “vecchia” Fiat dovrà produrre, in Italia, 1.400.000 autovetture, più 250.000 veicoli commerciali leggeri, e nel resto del mondo, anche attraverso varie alleanze, altri 2.150.000 autoveicoli. Aggiungendo a questi 2.200.000 pezzi fabbricati dalla Chrysler, il gioco è fatto: la “massa critica” di 6.000.000 di autoveico li può essere raggiunta. Troppo bello per essere vero? Può darsi. Ma la vera domanda cui rispondere è un’altra: perché questa crescita improvvisa del numero di auto da produrre in Italia rispetto alle 900.000 annunciate a Palazzo Chigi il 22 dicembre 2009? Siamo stati tra i primi a dire che la Fiat di Marchionne non è più un’azienda italiana ma è diventata una multinazionale. Questo resta vero. Ma forse Marchionne ha cominciato a pensare che un’identità è necessaria per sopravvivere nel mercato globale. E che il made in Italy, è il caso di dirlo, di identità ne ha ancora da vendere.