Il clamoroso – almeno nelle dimensioni – inaspettato risultato elettorale del Partito democratico, che oltrepassa di slancio la soglia del 40 per cento dei voti, unito al superamento del quorum da parte della lista Tsipras e alla contemporanea sconfitta dei partiti di Grillo e Berlusconi, assegna all’Italia il ruolo di capofila tra gli Stati in cui il voto europeo ha registrato l’affermazione di forze politiche progressiste e di sinistra. Un risultato certamente importante, che conforta rispetto alle precedenti consultazioni elettorali, che rilancia l’immagine e il ruolo dell’Italia nel panorama continentale e che, almeno nel nostro paese, ridimensiona fortemente le spinte populiste e antieuro che nella campagna elettorale sono state agitate dal fronte dei nemici dell’Europa. Questo, appunto, vale per l’Italia.

Ma cosa ci dice il voto nell’insieme dell’Europa? E cosa si prospetta, a partire dalla composizione del nuovo Parlamento europeo e dalla scelta del presidente della Commissione, per i lavoratori e i sindacati in Europa? Con tutta evidenza, lo scenario generale offre un quadro molto meno ottimistico e favorevole rispetto a quanto avvenuto da noi.

Vediamo i numeri, non prima di aver ricordato che l’affluenza al voto è stata del 43,1 per cento degli aventi diritto, una percentuale praticamente analoga a quella delle precedenti consultazioni nel 2009, con cui per la prima volta si blocca la tendenza al calo generalizzato dei votanti, elezione dopo elezione. I primi dati, in attesa di conferme ufficiali, assegnano al gruppo dei popolari europei il primato, con 213 parlamentari eletti, pari al 28,3 per cento sui complessivi 751 seggi. Al secondo posto il gruppo dei socialisti e democratici, con 190 parlamentari e il 25,3. L’alleanza dei democratici e liberali si conferma terza forza con 64 eletti, che rappresentano l’8,5 per cento Seguono i verdi (53 eletti e il 7 per cento), il gruppo dei cosiddetti conservatori-riformisti (46 eletti e il 6,1), la sinistra unitaria europea (42 eletti e il 5,6). Il resto dei parlamentari si dividerà tra non iscritti ad alcun gruppo europeo e nuovi gruppi di euroscettici e di contrari all’Europa e all’euro.

Secondo alcune prime e del tutto provvisorie indicazioni, circa il 20 per cento dei nuovi parlamentari europei potrebbe essere collocato in questi due contenitori di posizioni dichiaratamente ostili al processo di integrazione europea. Un numero che, pur essendo più del doppio rispetto alla precedente composizione del Parlamento e quindi rappresentando una potenziale spina nel fianco del processo legislativo e nelle attività di aula e di commissione, fortunatamente non potrà bloccare i lavori parlamentari, come si temeva alla vigilia delle elezioni.

Non è affatto più confortante lo scenario che emerge dall’esame del voto nei singoli paesi. Oltre che in Italia, di cui si è detto, i partiti di sinistra e di centrosinistra si affermano in Grecia, a Malta, in Portogallo, in Svezia, in Romania. Sommando forze diverse tra loro, la sinistra primeggia in Irlanda, dove però il primo partito è quello indipendentista. Sono progressisti e di sinistra anche i primi partiti in Olanda, Slovacchia e Slovenia, in un contesto nel quale, tuttavia, la maggioranza degli elettori ha premiato l’insieme delle forze conservatrici e di destra. Forze, queste ultime, che prevalgono largamente nel resto del continente, specie nei grandi paesi, a partire dalla Germania.

La destra è saldamente al comando in Austria, in Polonia, in Bulgaria, in Croazia, in Finlandia, nelle tre Repubbliche baltiche, a Cipro e in quel granducato del Lussemburgo da dove proviene Jean Claude Juncker, il politico conservatore in vantaggio nella corsa a presidente della Commissione. La destra estrema, quella con le più preoccupanti caratteristiche autoritarie, nazionaliste, antieuropee, populiste, xenofobe e perfino antisemite, conferma lo sfondamento in Ungheria (dove il Fidész di Viktor Orbàn supera abbondantemente il muro del 50 per cento e dove i neofascisti di Jobbik raggiungono il 15) e si afferma – anche se con risultati meno eclatanti – in Danimarca. Grandissimo allarme e forte preoccupazione suscitano, poi, gli esiti del voto in Gran Bretagna e in Francia, dove gli indipendentisti dell’Ukip di Nigel Farage e l’estrema destra del Front National di Marine Le Pen si affermano come primo partito, un esito inquietante per i destini del percorso futuro dell’Europa, considerando il peso di questi due Stati nel generale contesto continentale. E ancora si segnalano – per la loro complessità, per la frammentazione del voto, per la spinta verso fenomeni di ribellismo sociale, di pulsioni indipendentiste, di nazionalismo spinto – le situazioni determinatesi in paesi importanti come Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Repubblica Ceca.

È con questo contesto generale, con il Parlamento europeo disegnato da questo voto, con la nuova Commissione che ne rispecchierà l’esito, che i lavoratori e i sindacati dovranno fare i conti nei prossimi anni. Veniamo da un lungo periodo di crisi economica e di sofferenza sociale, rese ancora più gravi dagli errori e dalle scelte sbagliate delle autorità europee, che hanno illusoriamente pensato di rendere l’Europa competitiva insistendo sull’austerità e sul rigore contabile. Alle politiche neoliberiste, seguite pedissequamente dalla Commissione europea e dai governi moderati e conservatori, ha corrisposto una scarsa capacità dei pochi governi nazionali di ispirazione progressista e dei partiti della sinistra europea di superare gli schemi economici prevalenti. Il non essere riusciti a liberarsi dai vincoli determinati a Bruxelles e a Strasburgo e a prospettare soluzioni e strade alternative, percepite dai lavoratori e dall’insieme della popolazione europea come vicine alle loro aspirazioni, è alla base della crisi e dei risultati non positivi della sinistra europea, con le pochissime eccezioni nazionali di cui abbiamo parlato, frutto più di dinamiche di carattere domestico che di un coerente percorso di iniziativa culturale e politica.

C’è da augurarsi che, da questo punto di vista, il voto rappresenti un monito e una lezione per il futuro. L’Europa ha bisogno di crescita, di ripresa della domanda interna, di aumento dell’occupazione, di rilancio del suo modello sociale, di superamento delle tante disuguaglianze oggi presenti. Ogni altra strada significherebbe la crisi forse irreversibile del processo di integrazione e del comune futuro europeo. È sulla base di questa consapevolezza che occorrerebbe muoversi, secondo quelle che oggi appaiono come le due ineludibili priorità: la questione democratica e la rinascita economica.

Per la prima volta, in queste elezioni i cittadini europei hanno potuto scegliere non solo un partito, ma anche un candidato alla guida del governo dell’Europa. Ora, è vero che non vi è stato un plebiscito per nessuno dei candidati e che Juncker gode di un vantaggio che non garantisce numeri autosufficienti. Tuttavia, se il possibile stallo dovesse provocare una soluzione decisa a tavolino, nel chiuso delle segrete stanze da parte dei capi di Stato e di governo, ciò potrebbe rappresentare un punto di crisi gravissima, dagli esiti catastrofici per la fiducia dei cittadini verso l’Europa. C’è bisogno di più democrazia, di un ruolo più deciso e autorevole del Parlamento europeo, del coinvolgimento attivo dei cittadini e dei partner sociali nelle istituzioni e nel processo decisionale. L’auspicio è che i governi e i leader nazionali facciano prevalere visione e speranza nella comune prospettiva europea, più che egoismi nazionali e di parte.

Così come è necessario che le istanze dei lavoratori europei e le proposte della Confederazione europea dei sindacati siano finalmente prese in considerazione. Dopo aver salvato le banche e messo in sicurezza l’euro, è arrivato il momento di destinare verso la crescita sostenibile e la creazione di posti di lavoro stabili e dignitosi le risorse pubbliche e private necessarie. Il Piano straordinario di investimenti da 250 miliardi di euro all’anno per i prossimi dieci anni proposto dalla Ces, il “Nuovo corso per l’Europa”, il cambio di marcia nelle politiche economiche e sociali, deve entrare finalmente nell’agenda della politica europea e cominciare a costituire, per i milioni di giovani senza occupazione e senza prospettive, un segnale di rinnovata fiducia nell’Europa e nel suo futuro.

* responsabile Segretariato Europa Cgil
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