Trovare il bandolo della matassa per cercare di illustrare tutte le questioni connesse con il tema “energia” è un’operazione certamente molto complessa, ma proprio per questo utile per dimostrare come mai questo nodo sia da sempre centrale nella storia dell’umanità e, quindi, del dibattito politico ed economico.

Varie organizzazioni internazionali hanno trovato un’espressione piuttosto rappresentativa per inquadrare le problematiche generali connesse alla questione energia: quella dello “sviluppo sostenibile”. In questo concetto sono presenti tre componenti connesse tra di loro: la sostenibilità ambientale, la sostenibilità economica e la sostenibilità sociale. Tre aspetti interdipendenti, nel senso che, in assenza di uno, anche gli altri avrebbero vita difficile.

La questione della sostenibilità ambientale è chiara. Essa riguarda gli effetti sul clima determinati dall’immissione nella nostra atmosfera dei gas di combustione, cioè di quei gas che producono un effetto serra con conseguente aumento della temperatura del suolo. Fino a un po’ di anni fa uno dei grandi problemi era rappresentato dalla disponibilità delle risorse naturali, sulle cui previsioni in realtà si sono giocate molte vicende variamente speculative, essendo questa disponibilità un dato “controllato” e tutt’altro che scientifico. La concentrazione territoriale delle risorse ha costituito anche uno dei fattori d’instabilità interna e internazionale delle relazioni politiche, in particolare dal momento che i paesi che alimentano la domanda non erano – e non sono – gli stessi che detengono le fonti.

Attualmente le diverse fonti energetiche si distribuiscono la domanda di mercato secondo questa “classifica”: petrolio (37,3 per cento), gas naturale (23,3), carbone (25,3), idroelettrico (6), nucleare (6), geotermia, eolico, solare, legno (0,8). La domanda complessiva a livello mondiale tende a crescere di circa il 2 per cento l’anno, a causa della tendenza alla stabilizzazione-riduzione dei consumi nei paesi avanzati e a un aumento da parte di quelli emergenti.

Nei decenni passati le questioni energetiche generali ruotavano intorno al problemi dei prezzi, della sicurezza degli approvvigionamenti e delle ipotesi – sempre discusse e discutibili, come detto – in materia di possibile esaurimento delle fonti. Attualmente tali questioni conservano il loro peso, ma se ne è aggiunta un’altra destinata a modificarne profondamente l’importanza. Si tratta, come è noto e come accennato inizialmente, della sostenibilità, o meglio dell’insostenibilità, ambientale di questo sistema energetico per gli effetti indotti sul clima della terra.

Ormai è chiaro che la relazione tra attività antropiche e aumento delle temperature rappresenta una minaccia reale per il pianeta. Da tempo, quindi, sia a livello internazionale sia a livello europeo si sono avviati e definiti accordi per ridurre la presenza dei gas sotto accusa. Nell’Unione Europea l’accordo indica l’obiettivo del cosiddetto “20-20-20” entro il 2030, e cioè: riduzione del 20 per cento (rispetto ai dati del 1990) dell’emissione di gas serra, aumento dell’efficienza nei consumi energetici del 20 per cento e quota di consumi coperti da fonti rinnovabili nella stessa percentuale.

È ragionevole ritenere tuttavia che l’andamento dei consumi energetici nei prossimi decenni abbia un trend tale da rendere insufficienti questi provvedimenti elaborati quando i consumi energetici non erano ancora influenzati dalla domanda dei paesi in via di sviluppo. L’attuale crisi economica internazionale forse non consente un’immediata revisione di quegli obiettivi, ma è da supporre che un intervento correttivo possa essere definito nei prossimi anni.

In questo pur sintetico scenario, che riguarda anche il nostro paese, si delineano due aree di interventi: la prima riguarda i provvedimenti da prendere sul sistema energetico attuale che, proprio perché insostenibile, deve essere accompagnato lungo la strada del suo “declino”, anche se nell’arco di alcuni lustri, e verso un cambiamento radicale che consista nell’utilizzo delle fonti rinnovabili. Un’ottica graduale di questo tipo comporta non solo la persistenza per molti anni delle attuali strutture, livelli e qualità dell’occupazione, ma anche la verifica della necessità di alcuni investimenti. È il caso dei nuovi gasificatori che potrebbero risultare completamente o parzialmente inutili.

La seconda area di intervento riguarda evidentemente la trasformazione del sistema energetico nel suo complesso. Si tratta di una trasformazione che richiede una vera e propria seconda rivoluzione industriale. Una sfida radicale che significa: ridurre fortemente la raffinazione petrolifera, le centrali termoelettriche e l’intero sistema del tradizionale trasporto dei prodotti energetici (compreso il carbone). Ma, anche, adattare i sistemi di trasferimento dell’energia elettrica in relazione alla diversa distribuzione sul territorio delle nuove fonti energetiche rinnovabili e modificare i sistemi di utilizzo dell’energia nella produzione dei vari beni prodotti dal sistema industriale e nei servizi.

Tre dovrebbero essere le decisioni politiche conseguenti da assumere:
- un processo cosi complesso e prolungato nel tempo richiede l’elaborazione di un Piano energetico nazionale. Questo piano non deve essere un libro dei sogni, ma lo studio attento di obiettivi e strumenti coerenti con il rilievo dei problemi;

- tempi e modi di attuazione devono corrispondere a decisioni attuative assunte dalla responsabilità politica, senza le quali non è immaginabile di affidare a interessi privati l’attuazione di processi che richiedono competenze e impegni del tutto straordinari e di interesse generale. Questa funzione programmatoria e di interazione con il sistema sociale e produttivo richiede a sua volta strutture e competenze specifiche;

- occorre definire una politica industriale che renda sostenibile questo processo di trasformazione, che altrimenti potrebbe produrre effetti positivi solo di natura ambientale ma rilevarsi insostenibile in relazione agli oneri economici e sociali, in primo luogo proprio per quanto concerne il fattore lavoro.

Quest’ultimo punto merita alcune precisazioni in quanto riguarda un sistema di debolezze politiche e strutturali specificamente italiane. La necessità di modificare profondamente il sistema energetico del paese con l’introduzione di nuove tecnologie può rappresentare una grande opportunità per correggere anche alcuni oneri che l’attuale sistema comporta e che altrimenti sarebbero difficilmente eliminabili. Com’è noto, infatti, subiamo una dipendenza energetica dall’estero di oltre l’80 per cento che pesa sulla bilancia dei pagamenti – e quindi sul Pil – per 40-50 miliardi di euro l’anno.

Una delle caratteristiche delle tecnologie delle fonti rinnovabili sta nel fatto che esse non necessitano di combustibili fossili e conseguentemente il costo del kwh è essenzialmente un costo d’impianto. Che però è ancora oneroso. Attualmente solo l’eolico e l’energia idraulica in alcune situazioni risultano competitivi con le fonti tradizionali. Il fotovoltaico, per esempio, ha ridotto fortemente in questi anni i suoi costi, ma è tuttora superiore di un buon 50 per cento.

Per agevolare la creazione di un mercato per queste nuove tecnologie vari paesi, compreso il nostro, hanno introdotto agevolazioni sulla produzione di energia da fonti rinnovabili. Questi incentivi sono stati caricati sulle bollette degli utenti; attualmente si calcola che una famiglia-tipo debba sopportare oneri intorno al 18-19 per cento del prezzo dell’elettricità consumata. Ma occorre anche domandarsi: come sono stati impiegati questi incentivi? Ovviamente per l’acquisto di impianti fotovoltaici o eolici. Tuttavia, poiché il sistema industriale italiano è ben lontano dal poter fornire queste nuove tecnologie, queste necessità sono state coperte dalle forniture provenienti dalla Germania e dalla Cina che in materia si erano già ben attrezzate. In definitiva abbiamo finanziato l’innovazione tecnologica di altri paesi, dimenticando che sarebbero state possibili ben altre soluzioni ricorrendo, ad esempio, alle competenze esistenti nelle strutture pubbliche di ricerca. Questo risultato ci è costato oltre 10 miliardi di euro nel solo 2011, qualcosa come 150.000 nuovi occupati.

Se questo schema generale dovesse essere proiettato nel tempo, raddoppieremmo l’entità finanziaria dell’attuale deficit per le importazioni di idrocarburi e, contemporanemante, dovremmo conservare e forse aumentare le tariffe elettriche già particolarmente elevate.

Questa sembrerebbe, purtroppo, la versione italiana della green economy. Non diversi sarebbero gli esiti sul piano del lavoro: alla forte contrazione dell’occupazione per le riduzioni da apportare all’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili, si sostituirebbero solo gli occupati necessari per le operazioni di trasporto e montaggio dei nuovi impianti acquistati però all’estero. Una non minore perplessità nasce anche dalla constatazione che questi pessimi risultati hanno avuto importanti apprezzamenti dalla stampa e anche da parte di personalità che dovrebbero essere ben informate sull’argomento.

Su tutto questo occorre sviluppare una seria riflessione, affinché un’opportunità straordinaria come quella offerta dal mutamento del sistema energetico non si trasformi in una forte e ulteriore scivolata lungo il sentiero del nostro declino. Purtroppo il sistema industriale italiano ha accumulato un ritardo in materia di innovazione tecnologica difficilmente recuperabile in tempi opportuni o pensando di cavarsela con qualche incentivo.

Questa situazione negativa, inoltre, riguarda anche le tecnologie utili per incidere sull’uso razionale dell’energia: la seconda ed essenziale componente di una seria politica energetica. Più in generale sugli scambi di prodotti ad alta tecnologia stiamo da molti anni accumulando un debito estero crescente che si aggira ormai intorno e oltre un punto di Pil. Correggere questa situazione dovrebbe rappresentare la bussola per una nuova politica industriale.

* Esperto di energia. Già vicedirettore generale di Enea