«Domani è festa, si mangia la minestra» comincia una vecchia filastrocca. Una volta la minestra, fra i poveri, era un lusso. Le occasioni di scansare il solito tozzo di pane con sopra un filo d’olio o un pezzetto di lardo o un mestolo di rape, da un ramaiolo di fagioli venivano collegate a Dio e ai santi. Rendere omaggio a certi santi , oltre al Natale, alla Pasqua, alla Madonna assunta in Cielo, e così via, permetteva di rompere routine mono-pasto, sempre uguali, sempre miserabili.

In una vita dominata dalla forza ingovernabile degli elementi, minacciata da febbri, da malattie, dall’epidemia più diffusa - la fame - e dalla morte, la sopravvivenza veniva affidata alla misericordia divina. Informa il Landucci nel suo Diario fiorentino dal 1450 al 1516 che durante una grave siccità “si fece venire la Nostra Donna di Santa Maria Impruneta, perché si racconciasse il tempo, ch’era piovuto più di un mese, e immediatamente s’acconciò bello”. Altrettanto il miraggio di mangiare tutti i giorni diventava un dono della divinità, e il desiderio si faceva preghiera al “Padre nostro”, padre dell’intera umanità affamata: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

Per quaranta secoli il grano è rimasto il principale sostentamento umano in Europa, in Africa Settentrionale, in Medio Oriente; insieme al vino ha costituito l’elemento di maggior consumo nel mondo occidentale, finché la carne è stata un prodotto troppo caro, da mangiare solo nei giorni di festa. La carne ha soppiantato il frumento come colonna portante dell’alimentazione soltanto nel XX secolo, e nemmeno agli inizi.

Nel 1881 sul «Giornale dei Bambini» usciva il primo episodio di un romanzo a puntate di Lorenzo Collodi, Storia di un burattino, che due anni dopo sarebbe stato stampato in volume col titolo Le avventure di Pinocchio. La favola presenta uno spaccato della società dei poveri di allora, ma si era oltre la metà del Novecento quando Lucio Battisti cantava: «Che ne sai di un bambino che rubava / e soltanto nel buio giocava / e del sole che trafigge i solai, che ne sai? / E di un mondo tutto chiuso in una via… che ne sai?».

Dentro spogli tuguri non c'era altro modo di mettere qualcosa sotto i denti che lavorare di la fantasia. «La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; accanto al caminetto era dipinta una pentola, che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo che pareva fumo davvero». Appena Pinocchio si accorge che è tutto finto, comincia a cercare affannosamente da mangiare, pane anche secco, polenta anche muffita, un “crosterello”, un osso avanzato al cane, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, ma non trova “proprio nulla”, trova “il gran nulla” e basta. L’episodio, inventato, scaturisce dallo squallore delle dispense, che era vero, riflette una condizione visibile addirittura nelle ninne nanne.

Non più delicati componimenti di vita per indurre il sonno nel bambino, in certi casi le ninne nanne soverchiano e annullano il legame d'amore della madre col figlio; questi è visto come una bocca in più in una casa in cui non c’è da sfamarsi.

«Fai la nanna, bel ciocione, che di pane non ce n’è un boccone, né di crudo né di cotto né di macinato troppo. Il mugnaio non è venuto, lo potesse mangiare il lupo.»

E ancora: «Ninna nanna nanna nanna, a cena voglio fare le frittelle, mi manca l’olio, il sale e la farina. Ninna nanna culla culla, oggi è nata una fanciulla senza dote e senza nulla.»

Infine: «Fai la nanna, che tu crepi ti portassino via i preti e di pan non c’è un boccone ti portassino al camposanto, fa’ la nanna, fa’ la nanna» (Ninne nanne italiane a cura di T. Scaffiotti).

«S’ingrassano de’ bei vitelli» si rammarica un mezzadro toscano in un canto detto, appunto, Il lamento del contadino, «e li si vendono freschi e belli / e l’altri mangiano le lombate / e noi si mangia testa e patate». Castagne in forno, fichi secchi, lupini salati, carrube e fagioli componevano la dieta invernale dei poveri del Meridione i quali, ancora nella prima metà del Novecento, per le grandi occasioni religiose del calendarioo, santificavano la festa con un piatto di carne. In Calabria, sotto Natale, scannavano un porco. Lo salavano per consumarlo i giorni festivi nel corso di un anno, “a parte qualche bestia morta di malattia, venduta nel villaggio invece di sotterrarla” (P. Lenormant, La Magna Grecia. Paesaggi e storia). E se, durante l’anno, al “popolo” lombardo (quello metropolitano, il popolo della campagna stava peggio) il cibo non mancava, però sempre lo stesso, una minestra di riso, lardo, cavoli e patate, nel Veneto i poveri andavano avanti con la polenta, che faceva venire la pellagra, detta il mal di miseria. Nelle solennità facevano una scorpacciata con “la pecorina morta sul proprio letto” (Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Annali di statistica del 1879). In ogni caso, lungo la penisola, era raro che la gente potesse permettersi una falda di lesso una volta la settimana. Meglio il pesce: si privilegiavano le aringhe affumicate, il baccalà e, al Sud, le sarde sotto sale.

I santi avevano dunque il ruolo, fra l’altro, di collegare il cibo con la ricorrenza, quasi una necessaria motivazione a tamponare, per un giorno, gli effetti della fame cronica, quella che nei secoli è stata soprattutto fame di proteine. La celebrazione di una divinità in calendario era proposta dalla Chiesa e assecondata pure a tavola dalla gente, per bisogno, ben diversamente dalla nostra usanza di dedicare un giorno agli innamorati, uno alla mamma, uno al papà, uno ai nonni, domani, forse, a cugini e zie, aggiungendo al regalo o il tradizionale “tutti i salmi finiscono in gloria e tutte le feste in una pappatoria”.

Carlotta Martini