Le “cannonate sugli immigrati” non vanno più tanto di moda. Ora gli immigrati si respingono "soltanto” e, dunque, al posto dei pallettoni ci sono i “respingimenti”. Anche “negro” nel borsino della retorica xenofoba è in calo in favore del dilagante “extracomunitario”, seguito da epiteti irripetibili. Le parole cambiano, hanno successi repentini e altrettanto celeri scomparse. Tuttavia in questi ultimi anni di crisi globali e paure locali un dato è certo: come ha segnalato recentemente il presidente Napolitano, assistiamo all’avanzare di una retorica della xenofobia sempre più pervasiva e dunque pericolosa. Una serie di parole, immagini, attitudini razziste che noi stessi magari finiamo per utilizzare senza più rendercene conto. Insomma, se il razzismo non nasce dalle parole è in esse che si sedimenta e trova alimento costante. Di questi temi abbiamo parlato con Stefano Bartezzaghi, enigmista, semiologo, saggista e puntuale osservatore, dalle colonne di Repubblica, del senso culturale delle parole. Bartezzaghi utilizza generalmente un’attitudine possono andare bene termini semplici o tecnici. “Respingimento” dà l’aria di un’operazione asettica e ferma, operata da un’autorità tanto equanime quanto inflessibile. Quando una tecnica operativa diventa il simbolo distintivo di una politica sull’immigrazione a me viene da ridere. A quanto pare, e non capisco perché, sono l’unico.

Il Mese Come ha sottolineato Giorgio Napolitano, il pericolo è quello che si diffonda sempre di più una retorica pervasiva della xenofobia: linguaggi e parole terribili che magari ci troviamo a ripetere senza saperlo. Cosa pensa di questa lettura?

Bartezzaghi Ritengo che il nostro presidente sia una persona molto saggia e anche colta; lo ammiro e leggo sempre con interesse quello che dice, perché si capisce che ogni suo discorso è molto ponderato. Non sono proprio sicuro, però, che una retorica come quella xenofoba abbia davvero un potere pervasivo. Dico meglio: sicuramente è pervasiva e diffusiva, ma solo di sé stessa. Il problema è che dà voce, possibilità di ripetizione a qualcosa che è già nel nostro animo e nella nostra cultura. Faccio un paragone: una scena cinematografica che viene evocata spessissimo, ancora oggi e cioè a distanza di più di trent’anni, è quella in cui Fantozzi proclama La corazzata Potemkin “una boiata pazzesca”. Intendiamoci, rido anch’io: salvo poi pensare che Fantozzi resta Fantozzi (ed Ejzenstejn resta Ejzenstejn, punto su cui penso che anche lo stesso Paolo Villaggio concordi). Dire “boiata pazzesca” (magari usando il sostantivo del libro, che era più diretto) è certamente “liberatorio”, ma è anche un po’ da poveracci, da Fantozzi. Fuori dall’analogia, essere inquietati dalla presenza di persone di altre provenienze fa parte dell’animo umano. Ai miei nonni milanesi è toccato con pugliesi, calabresi, siciliani; a me è toccato con senegalesi, rumeni, cinesi. Ma dire “sono tutti sporchi, delinquenti o terroristi” (come neppure i miei nonni dissero o pensarono mai), adagiarsi in questa retorica “liberatoria” nonché fantozziana è semplicemente incivile, ancor prima che poco solidale o magari poco cristiano. Usare un linguaggio xenofobo romperà anche tabù e “buonismi”, avrà anche un sicuro ritorno elettorale, ma quello che infrange è innanzitutto il tabù della civiltà (tabù che, non ci sarà bisogno di specificarlo, io terrei invece caro). La sintonia con l’elettorato che realizza non è la sintonia con le parti del corpo più nobili dell’elettorato.

Il Mese Tanti anni fa si usava assai frequentemente la locuzione “sporco negro”, o comunque la parola “negro”, che oggi è un po’ caduta in disuso, a favore di “extracomunitario”, spesso seguito da qualificazioni irripetibili. Come giudica questo passaggio di termini? Extracomunitario sembra a prima vista più “corretto” perché non legato al colore della pelle, ma forse il termine extracomunitario allude a una più inquietante sfera politica, comunitaria e chiusa, appunto.

Bartezzaghi Così, a orecchio, direi che “extracomunitario” è un termine che non viene avvertito nelle sue componenti. Non penso, cioè, che chi usa questo termine in modo offensivo voglia alludere alla provenienza dall’esterno di una civiltà chiusa. “Usare un linguaggio xenofobo potrà anche avere un sicuro ritorno elettorale – dice Stefano Bartezzaghi – ma sicuramente infrange il tabù della civiltà. Un tabù che, non ci sarà certo bisogno di specificarlo, io terrei invece molto caro”. “Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’Islam, ovunque esso possa affiorare”. Non si può non misurare tutta la distanza tra le parole pronunciate da Obama al Cairo il giugno e la misera Europa che esce dalle ultime elezioni continentali. Che non hanno premiato le destre – come si continua a leggere – ma tante formazioni xenofobe e parafasciste le cui campagne elettorali sono state abbondantemente innaffiate da una retorica apertamente razzista. È vero, come dice Bartezzaghi nell’intervista che pubblichiamo, che non si tratta tanto di contrapporre una retorica dell’integrazione a una retorica della xenofobia – come suggerito da Amartya Sen – ma è anche vero che le parole possono essere veleno e penetrare carsicamente a poco a poco nei nostri abiti mentali e civili fino a sconvolgerli del tutto senza che noi siamo più in grado di rendercene conto, diventando pupazzi nelle mani di un ventriloquo ideologico che parla attraverso le nostre labbra. Il discorso sulle parole tocca dunque anche “noi” che stiamo dall’altra parte, i non razzisti. Occorre perciò imparare a rifiutare drasticamente le espressioni che non ci piacciono e a igienizzare il linguaggio; bisogna anche evitare gli eufemismi (mai più “respingimenti”) e scegliere con cura cosa dire e come dirlo. Gli analisti hanno notato tre aspetti forti nel discorso di Obama: il primo è il fatto di non aver mai usato la parola “terrorismo”; il secondo di aver sottolineato, presentandosi, il suo secondo nome arabo, Hussein; il terzo di aver detto addirittura che “l’Islam fa parte dell’America”. Questa frase è una pietra e ci fa, mestamente, tornare a pensare alle nostre “povere” elezioni. L’Islam di Obama e le miserie d’Europa giocosa che finisce però spesso per rivelarsi molto più “seria” di tante analisi più sofisticate. La nostra conversazione comincia proprio dall’improvvisa moda del termine “respingimenti”. “Lo scorso mese – ci dice – ho scritto per Repubblica una breve rubrica dedicata alla parola “respingimento” (la rubrica si intitola “Lapsus”). L’associazione che mi è venuta in mente è quella di qualcuno che vuole alzarsi da una sedia ma ha davanti un ministro che lo spinge sempre giù; oppure di un portiere che “respinge” tutti i rigori; o di una commissione di esame che continua a bocciare il medesimo candidato, anno dopo anno. Con queste tre immagini volevo (penso che volessi) suggerire una domanda al lettore: è più patetica la sorte del respinto o quella del respingitore?

Il Mese E a quale conclusione è arrivato?

Bartezzaghi Moltissimi italiani ricordano il verso scritto da Mogol per Lucio Battisti: “Come può uno scoglio arginare il mare” (anche se alcuni fra loro lo hanno sempre frainteso: “Come può uno scoglio aggirare il mare”: è vero, lo ho appurato). Si può respingere una persona, una barca, ma non si può fermare un’ondata di migrazione, senza contare che a quel che mi risulta la percentuale maggiore di immigrati clandestini entra dai confini nordorientali (e terrestri) dell’Italia; e lì niente show di respingimenti. Come accade assai spesso, questi vocaboli di cui all’improvviso sembrano tutti innamorati rappresentano modi per edulcorare la realtà, zuccherini sillabici che mascherano l’aspro sapore del farmaco, che poi a volte è un veleno (come si sa). Per questa funzione che si chiama eufemismo di volta in volta. Esiste un processo molto comune per cui gli eufemismi si trasformano nel loro contrario (“disfemismi”, ovvero – più o meno – insulti). Succede quasi sempre: “casino”, all’inizio, era un modo delicato per alludere a ciò che più rudemente si denominava “lupanare” o “bordello”. Poi “casino”, da parola delicata, è diventata a sua volta una parola tabù.

Il Mese All’epoca dei respingimenti Repubblica ha diffuso immagini molto forti, quelle dei soccorritori in primo piano che toccano i profughi con degli evidentissimi guanti bianchi. Anche questo è linguaggio, retorica. Lei crede che in una società mediatizzata come la nostra siano più forti le immagini o le parole?

Bartezzaghi Quando sento parlare di civiltà dell’immagine normalmente provo a correggere dicendo che viviamo soprattutto nella civiltà della didascalia. L’immagine è fortissima, certamente, ma la sua immediatezza è anche indeterminata, senza un commento che annunci il contesto dell’immagine stessa. Ricordo quando Rai Tre e (penso) la redazione di Blob mandavano in onda lunghi spezzoni di immagini senza commento provenienti da un circuito internazionale che mi pare si chiamasse Evelina: erano molto affascinanti, ma anche difficili da seguire, nella loro nudità. Insomma: la fotografia e l’immagine testimoniano, ma ad affermare sono le parole.

Il Mese Secondo lei con qual tipo i retorica, con quale tipo di inguaggio occorre rispondere alla retorica della xenofobia? Come declinerebbe lei una retorica dell’integrazione?

Bartezzaghi
Non sono affatto sicuro che sia una questione di una battaglia di linguaggi, in cui una retorica risulta vincente sull’altra per la propria efficacia. Non mi pare, insomma, che le retoriche dell’integrazione che sono attualmente in campo siano di per sé inefficaci, sul piano del linguaggio e dell’argomentazione. Le parole sono importanti per quanto riescono a rappresentare ciò che le persone pensano e sentono già. Tutto si gioca sulla cultura e quindi, innanzitutto, sulla scuola, e poi sul lavoro e sui servizi sociali. Sono i territori da cui è sorta la Lega, e ci ricordiamo tutti che per molti anni la Lega non ha avuto voce sui mass-media nazionali.

Il Mese Il tema del rapporto tra le parole e la violenza è assi discusso in tanti contesti (si pensi al terrorismo). Secondo lei quanto l’uso di certe parole è in grado di generare violenza? O, al contrario, è la violenza di certi nostri sistemi politici ed economici a produrre l’utilizzo di talune parole?

Bartezzaghi È un tema delicatissimo, ed è molto difficile rispondere. Io penso anche alle parole di Giovanni Falcone in un libro, Cose di Cosa Nostra, che si può leggere come un grande manuale di semiotica italiana. Falcone scriveva: “Cosa Nostra uccide chi rimane isolato”. Parole e silenzi, insomma, non uccidono in sé ma possono creare le condizioni dell’atto di violenza. Una delle testimonianze più impressionanti del libro di Mario Calabresi, Spostando la notte più in là, riguarda il contesto in cui il padre Luigi, sottoposto a una campagna giornalistica e movimentistica di enorme violenza verbale, fu isolato dai suoi superiori e dai suoi colleghi della Polizia. Si tratta di un meccanismo ancestrale, predatorio e sacrificale, delle comunità umane. Un giorno il filosofo Norman Brown spiegò al musicista John Cage, suo amico, un’etimologia che fece a quest’ultimo una grande impressione: il termine sintassi in origine significava “disposizione dell’esercito per la battaglia”. Cage ci pensò sopra e concluse: “La smilitarizzazione del linguaggio: un problema musicale serio”. Non voglio dire che se ci fosse più educazione musicale nelle scuole, questo sarebbe un mondo, o almeno un paese, migliore (anche se poi in realtà lo penso). Voglio dire che fra la violenza del linguaggio e quella degli atti e delle armi c’è una relazione, anche se quest’ultima raramente è diretta e causale. Noi dovremmo saperlo bene. Linguaggi bellicosi e in sé violenti hanno riempito l’aria e le pagine da molto tempo in un paese che ha una tradizione di violenza organizzata (politica, criminale e anche istituzionale) di singolare rilievo, in via assoluta, e relativamente ai paesi esteri con cui lo si può comparare. Trovare un altro linguaggio è doveroso, anche se magari non comporta alcun vantaggio pratico: doveroso, intendo, come lo sono le norme d’igiene. Molte persone che in passato hanno sbagliato linguaggio non dormono sempre Molto sereni, almeno così spero, anche se non è alle loro parole che possono essere ricondotti crimini che ne hanno condiviso il bersaglio. Avere la biancheria pulita non ferma le pallottole, ma almeno fa vivere meglio.