Sessant’anni dopo la prima esibizione nell’Auditorium della chiesa Nostra Signora di Pompei, un anziano signore dall’età ben mascherata e dal piglio deciso osserva, seduto su una seggiola d’altri tempi al lato del piccolo palco, un gruppo di attori all’opera. Tutto pare filare liscio, finché a un certo punto scatta in piedi, impone lo stop e si sostituisce al protagonista. Recita la scena così come avrebbe voluto si svolgesse, nell’aspetto lo diresti simile a Totò, Totò alle prese con Le nozze di Figaro. Chissà quante volte quella scena si è ripetuta, quante volte lo stesso attore è stato bloccato nello stesso istante, quanti attori sono stati inchiodati alla stessa strofa da ripetere una, due, cento volte. Ma oggi è diverso. Anthony Amato ha deciso che è ora di dire basta. Un sole primaverile batte sulla facciata di quello che un tempo era stato un convento e poi un ristorante, e la battaglia a colpi di note con i vicini è ormai vinta. Di là i Ramones, era il 1974, di qua la Boheme. Di qua Le nozze di Figaro, oggi, ultimo spettacolo prima dell’addio, di là un negozio della Converse con musica dagli altoparlanti e nessuna anima. Il Cbgb, storico locale della controcultura newyorchese che per anni ha condiviso con l’Amato Opera House un edificio e un marciapiede, non c’è più, non ci sono più le avanguardie rock della musica statunitense e non ci sono più nemmeno i giovani punk a contendersi la scena con il pubblico dell’opera, o magari a mescolarsi a loro perché un posto a basso costo per assistere alla Traviata c’era sempre per tutti, a maggior ragione per ragazzi e studenti.

Non c’è più nemmeno l’amata Sally,
compagna di una vita e scomparsa da qualche anno. Non ci fosse stata lei chissà se l’amore per il bel canto si sarebbe tradotto nella prima perfomance, quella sera del 1948 nella chiesa Nostro Signore di Pompei al Greenwich Village, angolo tra Bleecker e Carmine Street, che all’epoca era considerato uno dei centri della cultura italo-americana. Il Barbiere di Siviglia, raccontano le cronache, e poi ancora, la settimana dopo nella stessa sala, la Cavalleria Rusticana di Ma scagni e I Pagliacci di Leoncavallo. E chissà se avrebbe visto la luce quel primo teatro al 159 di Bleecker Street: 299 posti a sedere, repliche a go go e persino qualche tour nelle città vicine, New Haven per esempio. L’aveva incontrata che aveva appena 22 anni e da poco più di una decina era sbarcato a New York dalla costiera amalfitana. Era il 1942, dall’altra parte dell’Oceano c’erano il fascismo, la guerra e i lager. La incontrò durante una commedia musicale al Papermill Playhouse nel New Jersey, entrambi cantavano nel coro e fu amore a prima vista. Si sposarono tre anni dopo, nel 1945, poco prima che Anthony fosse accettato come direttore nel programma educativo professionale dell’American Theater Wing. Due anni dopo decisero insieme di fondare una compagnia teatrale, con lui che insegnava canto e recitazione ai veterani della seconda guerra mondiale e lei, prima cantante, che cuciva anche i costumi, si prendeva cura della biglietteria ed era addetta alla direzione delle luci.

Eccolo qui, l’uomo che ha fatto conoscere Giuseppe Verdi a New York. Riseduto sulla seggiola ai lati del palco, osserva con attenzione la scena che ha fatto ripetere. Ha i tratti e i modi di un anziano signore napoletano d’altri tempi, e non lo tradisce la lingua quanto il fisico e le movenze. Sostiene di aver ereditato dal padre la passione per la musica anche se quest’ultimo nella vita era un macellaio. Macellaio ed emigrante. Tutto di un tratto scatta ancora, e ancora una volta non tradisce l’età che volge ai cento piuttosto che ai novanta. Riferma la scena nello stesso punto di prima, si risostituisce all’attore in costume, chiede ancora una volta la perfezione. Questa volta con un tono di rimprovero leggermente più severo. Forse si è sempre comportato così, forse è perché questa volta non ci sarà nessuna replica.

Quella seggiola è lì da quasi 50 anni, insieme a centinaia di vestiti, parrucche e altri costumi di scena. Era il 1959 quando il teatro di Bleecker Street chiuse i battenti, il 1962 quando vide la luce la nuova Amato Opera House, nel popolare e all’epoca malfamato East Village newyorchese. Il più piccolo teatro del mondo, sei metri di lunghezza e appena 107 posti a sedere, il piccolo palco sul quale stanno provando gli attori, la buca per l’orchestra. Poi scale e cunicoli per i camerini, all’ultimo piano il guardaroba per i costumi, i quadri, le sedie, gli alberi, bandiere, spade e altri accessori di scena. Per sessant’anni l’unico teatro d’opera indipendente degli Stati Uniti, totalmente autogestito e senza sponsorizzazioni o finanziamenti pubblici, cinque o sei rappresentazioni a stagione, un mix di tragedie e commedie in cartellone per cinque settimane di fila per dare la possibilità alle compagnie, tra le sei e le dieci, di alternarsi in modo da offrire a tutti la possibilità di andare in scena, con l’obiettivo di fare teatro dell’opera a basso costo, fruibile dalla classe operaia americana, e di offrire un palcoscenico ai giovani talenti. Come nella Napoli che il signor Amato senior, macellaio, aveva abbandonato alla ricerca di miglior fortuna. Quella Napoli degli anni 20 dove il sacro si mescolava con il profano, il colto con l’ignorante, il ricco con il povero, dove il teatro era di tutti e nelle pause tra un atto e l’altro si ascoltava la musica popolare. Antonio era nato a Minori, tra i limoni della Costiera amalfitana, e aveva nove anni quando il padre aveva imbarcato tutta la famiglia su una nave diretta negli Stati Uniti e si era stabilito a New Haven, nel Connecticut. Era stato proprio il padre, macellaio che vendeva carne fischiettando Verdi, a insegnare la musica ai suoi sei figli. E Antonio lo aiutava nel negozio prima di mettersi a studiare, alla chiusura della bottega. Questo settant’anni prima.

Oggi è un giorno speciale. È l’ultima volta che Anthony siede su quella seggiola che sta lì da 50 anni. Da solo perché la sua compagna di una vita non c’è più e una sua foto appesa a un muro sorveglia la scena. Ha deciso non di chiudere ma di aprire un nuovo capitolo della sua vita. L’attore riprova per l’ennesima volta e ancora una volta viene fermato, sempre allo stesso punto. Questa volta si prende una ramanzina più che una lezione. Ma sa che l’insegnamento gli risulterà prezioso e non si ribella. Specie oggi che è un giorno speciale e per Anthony, che ha sempre aperto la porta a chiunque volesse recitare o solo imparare, è dovuta una prestazione senza sbavature. Tutto deve filare alla perfezione, ci saranno i pasticcini per il pubblico e un brindisi finale, i giornalisti e le tv, i fedelissimi e i presenti per caso, e per qualcuno la prima volta coinciderà con l’ultima. Anthony Amato non lascia nulla al caso e apparentemente non ha rimpianti. Va in scena con la consueta grazia e umiltà, saluta il pubblico, sorride e saluta. La missione è compiuta, i suoi discepoli tradurranno l’esperienza compiuta in due differenti compagnie. Con loro rivivrà l’epopea di Anthony Amato, figlio di macellaio, marito di Sally, amante dell’opera ed emigrato da una Costiera amalfitana un po’ più bella di quella che ha ritrovato nei suoi rari ritorni. È il 30 maggio del 2009. Cala il sipario. La vecchia, gloriosa Amato Opera House può andare in pensione con il suo novantenne fondatore.