Sant'Angelo del Pesco, San Giuliano di Puglia, Ferrazzano, San Giuliano del Sannio, Busso, Farindola, Turrivalignani, Manoppello, Elice, Rosicano, Roccascalegno, Lettomanoppello, Alanno, Casoli, Sant'Eusanio del Sangro, Castelvecchio Subequo, Castel del Monte, Ovindoli, Isola del Gran Sasso, Reggio Calabria, Rosarno, Petrizzi, Sant'Angelo a Cupolo, Cervinara, Mercato Saraceno, Prignano sulla Secchia, Pavullo, Gaggio Montano, Fiume Veneto, Udine, Ranchis, Flaibano, Azzano Decimo, Povoletto, Palazzolo delle Stelle, Cerete, Bienno, San Pietro Berbenno, Monteciccardo, Ancona, Novafeltria, Macerata, Colbordolo, Casteldelci, Sant'Agata Feltria, Pesaro, Cingoli, Fano, Petriano, Racale, Salice Salentino, Gagliano del Capo, Tuglie, Mola di Bari, Alezio, Brindisi, Serrano, Martina Franca, Crispiano, Lesina, Melissano, Laterza, Taurisano, Montaperto, Augusta, Sommatino, Caltagirone, Massa, Cascina, Fiesole, Pergine Valsugana, Montebelluna, Montorio Veronese, Sedico, Codognè, Cimadolmo.

No, non è un semplice elenco di comuni d'Italia, questo. Questa è la mappa della morte che venne dalla miniera, il repertorio del dolore e del rimpianto, la geografia commossa (per prendere a prestito un'espressione di Franco Arminio, scrittore e paesologo) dell'Italia che ha pagato un tributo a Marcinelle. Da ognuno di quei luoghi, dalle città più grandi come dai minuscoli paesini, proveniva uno (o in qualche caso molti, come per Manoppello in provincia di Pescara, dove in ventitré non fecero mai ritorno a casa) dei 136 italiani che tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta lasciarono l'Italia per andare in Belgio e morire nell'inferno di Marcinelle, al Bois du Cazier. Una piccola parte di quelle decine di migliaia di braccia in cambio di carbone, come gli accordi del 1946 tra i due paesi avevano stabilito. 

A pensarci, sembra di vederli quei "cafoni" e quei "carusi", quei figli di pastori, di zolfatari, di contadini e braccianti poverissimi, quei ragazzi dell'Italia scheletrita e affamata, al nord come al centro e al sud, nel dopoguerra prima del boom. Le poche foto in virato seppia dell'epoca li mostrano con il vestito della domenica, il cappello e il gilet, in mano il volantino che promette casa e lavoro nelle miniere del Belgio, in attesa del treno per il viaggio della vita. 

All'arrivo avevano trovato, sì, il lavoro. Spalare carbone a centinaia e centinaia di metri sottoterra, spaccare la roccia distesi in cunicoli stretti e angusti, portare in superficie tonnellate di oro nero nei carrelli per guadagnarsi la paga. Quanto alla casa, beh, il volantino non diceva proprio la verità. All'inizio, almeno, le case erano baracche di lamiera, residuo dell'occupazione nazista del Belgio, che in tempo di guerra avevano ospitato attrezzature militari e prigionieri nemici. Per anni furono quelle baracche, gelide d'inverno e roventi d'estate, le case degli italiani e dei tanti stranieri venuti a fare i minatori. E poi, fuori dalle baracche e dalla miniera, il gelo del razzismo e del rifiuto, i cartelli che proibivano l'ingresso nei bar e nei ristoranti, l'impossibilità di affittare una casa vera, i muri contro gli stranieri arrivati fin lì in cerca di fortuna.

Una fortuna che prese vie diverse, buone o meno a seconda dei casi. In maggioranza buone, perché l'emigrazione italiana in Belgio è stata nell'insieme una storia di successo e ha rappresentato comunque la possibilità di un futuro e di una condizione sociale all'insegna del riscatto e dell'affermazione di sé, nel lavoro e nella vita. Per i nostri 136 è andata in altro modo, per loro tutto è finito esattamente sessant'anni fa, mercoledì 8 agosto 1956, nel giorno in cui morirono nelle viscere della miniera, bruciati dalle fiamme o soffocati da fumo e polvere, insieme a novantacinque belgi, otto polacchi, sei greci, cinque tedeschi, tre ungheresi, tre algerini, due francesi, un britannico, un olandese, un russo, un ucraino.

Sessant'anni dopo, il ricordo della strage di Marcinelle rimane forte e vivo, più che per altri fatti analoghi. Le ragioni sono, forse, nel carattere epocale di quella tragedia e nel suo tratto globale. Marcinelle è uno spartiacque, un punto di svolta. Nella storia delle condizioni di lavoro dell'industria mineraria, in Belgio e nel resto d'Europa, c'è un prima e un dopo Marcinelle. Il prima lo si intuisce dai racconti dei superstiti, dalle indagini della magistratura, dalle commissioni di inchiesta: nessuna formazione professionale, uomini senza esperienza mandati a lavorare in condizioni di sicurezza precarie a oltre mille metri di profondità, sistemi di protezione personale e collettiva carenti. Il dopo è stato l'introduzione dell'obbligo di uso delle maschere antigas, i corsi sulla sicurezza e sulla prevenzione degli incidenti, la riduzione dell'orario di lavoro, il contrasto al metodo del cottimo, il grande piano sociale della CECA, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. 

Marcinelle è stata anche una grande tragedia europea, un lutto che certo ha colpito soprattutto Italia e Belgio ma che, nel portare dolore in altri paesi, ha rivelato il carattere sovranazionale della forza lavoro in quelle miniere e la condivisione di una esperienza umana e professionale che, nella sua durezza, ha costituito la base su cui si è sviluppato l'embrione di una coscienza collettiva, la coscienza europea. È anche per questo che dopo Marcinelle le politiche di accoglienza e di inclusione degli stranieri in Belgio sono diventate centrali, superando anni di diffidenza ed esclusione ed avviando un processo di estensione graduale dei diritti sociali e di cittadinanza.

Sono le stesse ragioni per le quali Marcinelle parla ancora, parla soprattutto ora, parla al tempo e agli uomini che sembrano aver dimenticato e rimosso l'emozione e il ricordo. Parla ai giorni che viviamo, giorni in cui il lavoro torna ad essere considerato variabile secondaria  e senza valore del processo produttivo, da remunerare poco e da spogliare di diritti, a partire da quello alla sicurezza. Parla alla coscienza di tanti Stati europei in cui individui e organizzazioni senza scrupoli sfruttano il lavoro degli immigrati per poi respingerli e negare loro ogni diritto, in cui si erigono nuovi muri, si allestiscono moderni campi di concentramento e segregazione, si assegna consenso elettorale a forze politiche che vagheggiano ritorni a piccole patrie, predicano odio e supremazie di razza o di religione, alimentano conflitti e scontri di civiltà.

Per queste ragioni, ricordare Marcinelle è un obbligo morale e un impegno culturale e politico di primaria importanza. La Cgil e l'Inca lo hanno fatto ufficialmente a luglio, in una iniziativa svoltasi proprio al Bois du Cazier di Marcinelle a cui ha partecipato il segretario generale Susanna Camusso. Continueremo a ricordarlo ancora domani con una nuova cerimonia nello stesso luogo e lo faremo per tutto l'anno, nelle tante iniziative che da qui a dicembre segneranno il sessantesimo anniversario di questa terribile tragedia del lavoro.

* Fausto Durante è responsabile Politiche europee e internazionali Cgil nazionale