PHOTO
La nuova legge
Il decreto sicurezza, o insicurezza come è stato ribattezzato dalle opposizioni, è legge. Blindato dalla fiducia voluta dal governo di Giorgia Meloni, il provvedimento contiene 14 nuovi reati e segna un profondo cambiamento nel sistema giuridico italiano.
Un insieme di provvedimenti che, secondo molte associazioni e organizzazioni, diminuisce i diritti fondamentali e aumenta il sentimento di paura dei cittadini e delle cittadine, portando il Paese verso un modello repressivo e antidemocratico.
In questo approfondimento alcuni degli articoli più contestati.
Vietato manifestare il dissenso
di Roberta Lisi
È l’articolo 14 del Capo II della legge, da poco approvata, quello che trasforma un illecito amministrativo in reato penale.
Il reato è l’impedimento alla libera circolazione e prevede che chi blocca la strada o la ferrovia sedendosi o sdraiandosi sui binari o sulla carreggiata rischia fino a un mese di reclusione o una multa di 300 euro. Se è da solo, perché il comma b del medesimo articolo prevede che se il reato è commesso da più persone, la pena cambia: la reclusione va da sei mesi a due anni. Spesso sono lavoratori e lavoratrici che, per difendere il proprio diritto al lavoro, manifestano bloccando le strade.
E non finisce qui: se si manifesta contro opere ritenute strategiche, ad esempio il ponte sullo stretto di Messina o la Tav, la pena sarà aumentata della metà.
L’articolo 19 introduce nel Codice penale l’aggravante di resistenza a pubblico ufficiale nel corso di manifestazioni contro “la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”.
L’articolo 12 invece, modificando il 653 del Codice penale, rende più dura la pena in caso di danneggiamenti durante una manifestazione: da un anno e sei mesi fino a cinque anni di carcere e una multa che può arrivare fino a 15 mila euro.
L’articolo 13 introduce l’arresto in flagranza differita e il Daspo urbano per chi fosse condannato anche solo in primo grado per i reati all’articolo precedente.
La domanda che sorge spontanea è: dove vanno a finire gli articolo 17 e 21 della Costituzione?
Occupazione case, come la mettiamo con gli sfratti?
di Patrizia Pallara
Un nuovo reato e due nuovi articoli di codice penale (634 bis) e di procedura penale (321 bis). Per regolamentare l’“occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui”, il decreto sicurezza all’articolo 10 fa un salto a ostacoli, inasprendo in modo eccessivo le pene e lasciando comunque sul tappeto pericolose ambiguità.
La norma mira a punire le situazioni in cui un cittadino occupa abusivamente l’alloggio di qualcuno, una casistica che in verità è molto variegata e complessa. Ma non è chiaro se si riferisce solo all’occupazione di immobili che sono il domicilio di altri o a tutte le occupazioni in generale.
Da qui il rischio che è dietro l’angolo: famiglie che hanno uno sfratto esecutivo per morosità incolpevole o per cessata locazione, quindi con un contratto scaduto e magari in attesa di rinnovo, possono essere perseguite. Un autentico paradosso.
Poi c’è l’elevazione delle pene: si arriva fino a sette anni di reclusione, mentre prima erano due anni per fattispecie in cui poteva rientrare questo tipo di illecito. Inoltre, una procedura abbreviata che presta il fianco all’arbitrarietà.
Il nuovo articolo 321 bis del Codice penale (reintegrazione nel possesso dell’immobile) prevede che a seguito della denuncia del proprietario di una casa intervengano gli ufficiali di polizia giudiziaria, i quali possono ordinarne l’immediato rilascio: si tratta di un’attività esecutiva demandata completamente alla polizia, che per essere effettuata necessita di una semplice autorizzazione del magistrato, resa anche a voce, confermata per iscritto o per mail. Mentre mandare fuori di casa una famiglia incide sulle garanzie delle persone interessate, la procedura per arrivare a questo prevede accertamenti sommari da parte della polizia.
Carceri e cpr: la rivolta è un reato
di Simona Ciaramitaro
Il nuovo reato di rivolta in carcere prevede la punibilità con la reclusione da uno a cinque anni. Sono punite anche le condotte di resistenza passiva.
L’articolo 26 della legge, al secondo comma all’art. 415 del Codice penale, prevede un’aggravante se le condotte descritte avvengono all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute, mentre l’articolo 27 invece introduce il delitto di rivolta nei centri per l’immigrazione. Entrambi sono qualificati come reati ostativi.
C’è poi anche l’articolo 37 che espone le linee programmatiche sul tema del lavoro penitenziario, prevedendo la possibilità di attuare “modelli organizzativi privi di rapporti sinallagmatici”, vale a dire lavoro non retribuito per i detenuti.
Le associazioni che si occupano dei detenuti nelle carceri italiane, una su tutte Antigone, descrivono le suddette norme come tra le più pericolose presenti nel testo, perché mirano a cancellare le basi del nostro Stato di diritto.
“La volontà governativa manifestata attraverso il decreto – scrive proprio Antigone – è chiara: stravolgere il modello penitenziario costituzionale, ricollegandosi al regolamento penitenziario fascista del 1931”.
Nel dettaglio la “legge sicurezza” stabilisce che “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
Anche la resistenza passiva rientra tra gli stessi reati punibili, quindi anche l’impedimento del “compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. A poco sono valsi i rilievi del presidente della Repubblica, che hanno portato solamente a specificare cosa si intenda per resistenza passiva, una definizione che comprende persino lo sciopero della fame, che i detenuti praticano come unico modo per esprimere il proprio dissenso.
Per quanto riguarda i Cpr, le norme mostrano di considerare i centri di trattenimento come carceri e la volontà di reprimere ogni forma di dissenso con pene esemplari.
Mamme e bimbi in carcere, peggio del periodo fascista
di Patrizia Pallara
L’articolo 146 del codice penale stabiliva l’obbligo del differimento della pena per le donne incinte o madri di bambini fino a un anno di età: il giudice non poteva rinchiuderle in carcere ma era tenuto a prevedere misure alternative, come la detenzione a casa.
L’articolo 15 del decreto sicurezza abroga questa previsione e statuisce che le donne in gravidanza o mamme, una volta condannate o in custodia cautelare, vengano recluse negli Icam, istituti a custodia attenuta. E introduce per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre in chiave punitiva, se questa dall’Icam viene spostata in carcere quando la condotta non è adeguata. Un articolo che in pratica peggiora una disciplina del codice Rocco che è stata pensata e approvata del 1930, nel periodo fascista.
Gli Icam però sono carceri a tutti gli effetti: le uniche differenze sono che il personale non indossa la divisa, ci sono giochi per i bambini e pareti colorate, ma per il resto sono identici, hanno le sbarre e chiudono di notte. Non sono posti in grado di accogliere i bambini e di garantire il supremo interesse del fanciullo, come dicono le convenzioni internazionali, questo è certo.
Senza contare che in Italia ce ne sono soltanto tre in funzione: a Milano, Torino e Venezia. Quindi tutti al Nord, cosa che contravviene al principio della territorialità. Ci sarebbe anche l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, che pur essendo ufficialmente chiuso, pare che sia aperto almeno ufficiosamente.
Ma poi, a conti fatti, di quante donne in questa situazione stiamo parlando? Quante borseggiatrici o autrici di furti e furtarelli, come ci hanno raccontato in questi mesi per propagandare la norma, in gravidanza o mamme di bimbi sotto i dodici mesi? Parliamo di 11 madri con 12 bambini, su un totale di 61.916 detenuti in Italia (fonte Antigone gennaio 2025). Un numero talmente irrisorio che non meriterebbe neppure una riga di una nuova legge.
007 licenza di sovvertire
di Simona Ciaramitaro
L’articolo 31 del decreto sicurezza rende permanenti alcune norme di garanzia per gli agenti dei servizi segreti e, tra queste, la non punibilità di condotte come la partecipazione e “direzione o organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico”. Come a dire, la licenza di sovvertire.
Alcune “disposizioni per il potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza” erano già inserite, magari come transitorie, in leggi di precedenti governi, ma con questo decreto il Governo Meloni le rende stabili e amplia tutto il campo degli illeciti che gli 007 possono commettere senza essere puniti, dimenticando così il passato di questo Paese fatto di tentativi di golpe, stragi e servizi deviati. Che però ora deviati non sarebbero più, in quanto si consente loro di violare leggi che sinora dovevano invece rispettare, come creare, appunto, associazioni terroristiche o mafiose. Con buona pace per le associazioni dei parenti delle vittime delle stragi che hanno alzato le loro proteste.
Già una legge del 2007 contemplava l’impunibilità dei comportamenti degli agenti dei servizi di sicurezza, pur costituendo reato, se adottati nell’esercizio delle proprie funzioni e per garantire il “supremo” e “preminente” interesse alla sicurezza dello Stato. Si tratta di operazioni “legittimamente autorizzate” dal presidente del Consiglio o dall’autorità delegata. Dovevano essere invece puniti i reati che mettono in pericolo o ledono “la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone”. Lo stesso vale per i reati sui quali non si può apporre il segreto di Stato.
La partecipazione degli agenti dei servizi a un’associazione con finalità di terrorismo e ad associazioni di tipo mafioso era quindi punibile. Con il “decreto antiterrorismo” del Governo Renzi, approvato dopo gli attentati di stampo jihadista in città europee e non solo, si comprendevano altri reati per i quali gli agenti del servizio d’informazione non potevano essere incriminati: ad esempio, quelli legati alla partecipazione o al sostegno di associazioni sovversive o terroristiche, all’addestramento e al trasferimento per finalità di terrorismo, al finanziamento di attività terroristiche, all’istigazione o all’apologia di crimini contro lo Stato o contro l’umanità, e alla partecipazione a bande armate.
Con il provvedimento in esame si inseriscono nella legge sull’intelligence l’elenco dei reati scriminati dal decreto antiterrorismo e se ne aggiungono altri:
- la direzione e l’organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico;
- la detenzione di materiale con finalità di terrorismo;
- la fabbricazione, l’acquisto o la detenzione di materie esplodenti;
- la distribuzione e pubblicizzazione di istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie esplodenti.
I reati indicati, se compiuti da agenti dei servizi nell’ambito di operazioni autorizzate, saranno sempre considerati non punibili, senza bisogno di proroghe o rinnovi annuali.
Le nuove norme consentono poi che agli 007 le pubbliche amministrazioni, come le società controllate e partecipate dallo Stato, non si possano opporre a prestare “la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie” per l’adempimento delle funzioni dei servizi. Questo anche in deroga ai vincoli di riservatezza previsti dalla normativa di settore. Ciliegina sulla torta della privacy, l’estensione del suddetto obbligo anche a tantissimi altri uffici pubblici, come ospedali, università e procure.
Questo prevede un azzeramento dei limiti all’intelligence italiana nel raccogliere informazioni e dati sensibili. Difficile bollare come fantasiosi i rilievi di chi solleva timori di derive autoritarie.
Cannabis light, addio
di Patrizia Pallara
L’articolo 18 del decreto sicurezza provoca un terremoto nel mondo della cannabis light, cioè canapa a basso contenuto di Thc (tetraidrocannabinolo), una filiera che ha un giro d’affari di quasi due miliardi di euro compreso l’indotto, 3 mila aziende e circa 22 mila addetti. Di fatto chi coltiva, lavora o distribuisce infiorescenze di canapa industriale si ritrova in mano una sostanza considerata droga e può essere perseguito per reati quali spaccio o traffico di sostanze stupefacenti.
Le modifiche introdotte alla legge 242/2016 (che disciplina la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale), infatti, consentono la coltivazione della canapa solo per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi dall’uso farmaceutico e con sementi certificate. E vietano tutto il resto: importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione, consegna delle infiorescenze della canapa legalmente coltivata, compresi i semilavorati anche in forma essiccata o triturata, o prodotti contenenti o costituiti da queste infiorescenze, compresi estratti, oli, resine derivate.
Siamo di fronte a un vero e proprio corto circuito normativo: vengono classificati come stupefacenti prodotti che non lo sono, piante che sono escluse espressamente dai trattati internazionali e dallo stesso testo unico sugli stupefacenti.
Ciononostante, ai trasgressori si applicano le medesime norme previste per produttori e spacciatori di vere sostanze stupefacenti: il carcere da sei a 20 anni e sanzioni da 26 mila a 260 mila euro (ma le pene possono essere maggiori). Mentre il possesso diventa un illecito amministrativo che può comportare la sospensione della patente, del passaporto, del porto d’armi, del permesso di soggiorno per motivi di turismo.
Poteri delle forze dell’ordine, ovvero specchietto per le allodole
di Roberta Lisi
Un intero capo della “legge sicurezza”, il terzo, è dedicato alle misure in materia di tutela delle forze dell’ordine. Una serie di articoli che dispone una serie di interventi apparentemente a favore di uomini e donne in divisa.
L’articolo 21 del provvedimento introduce l’uso di bodycam e videosorveglianza per documentare le operazioni di polizia nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza di siti sensibili e a bordo dei treni e anche in situazioni di restrizioni della libertà personale.
L’articolo 22, invece, già dall’anno in corso prevede il raddoppio delle spese legali (fino a 10 mila euro) per agenti indagati per fatti di servizio.
Bene si dirà? E invece a spiegare perché bene non va è Pietro Colapietro, segretario generale Silp Cgil: “Il raddoppio delle spese legali per gli agenti indagati per fatti di servizio non risolve il problema di fondo che è quello di regolamenti di servizio e disciplina obsoleti, che non si è voluto aggiornare e che penalizzano realmente il personale”.
L’articolo 28, infine, si spiega con la volontà securitaria che attraversa l’intera legge. Quest’articolo prevede che gli agenti di pubblica sicurezza possono portare le armi – e si presume usarle – anche quando sono fuori servizio.
Ma queste misure servono davvero agli uomini e alle donne delle forze dell’ordine? Secondo Colapietro no: "Queste disposizioni, lungi dall'affrontare le reali problematiche della sicurezza pubblica, si rivelano essere un mero contentino politico, incapace di garantire un'efficace protezione per i cittadini nonché per le lavoratrici e i lavoratori in divisa”.
Conclude il dirigente sindacale: “È inaccettabile che il governo continui a ignorare le richieste di un potenziamento reale delle risorse, dei salari, degli organici, della formazione per le forze di polizia, oltre all'assenza di una previdenza complementare e dedicata, mentre la criminalità organizzata continua a prosperare. In questo clima, è essenziale che la sicurezza non venga vista solo come una questione di ordine pubblico, ma come un tema complesso che richiede l'impiego di risorse adeguate e strategie a lungo termine. Il decreto sicurezza punta invece sulla militarizzazione della sicurezza, direi sulla trumpizzazione della sicurezza".