Il racconto

Marinela Faber mi guarda intimidita dall’altra parte del display del telefono cellulare, ha i capelli ricci castani, un paio di occhiali da vista dalle grandi lenti, la carnagione chiara. È di origini rumene, viene da Bucarest, arrivata in Italia venticinque anni fa: “Un’altra vita” sostiene, “sono partita a 18 anni con il mio ragazzo, l’ho vissuta come una avventura e un’opportunità per migliorare la mia condizione” dice di quei momenti lontani.

Dopo quella che chiama “la rivoluzione” - la caduta di uno dei regimi comunisti più oppressivi e polizieschi, quello di Ceaușescu – la Romania era in ginocchio: “Il lavoro era precario, gli stipendi molto bassi, vivevamo in un paese instabile”. La lingua che parla, con la quale argomenta, ragiona, mischia un italiano corrente, qualche inflessione di quella madre, così come scorie del dialetto fabrianese: “sono arrivata a Roma, dove ho vissuto tre anni, lavoravo come lavapiatti, cameriera, mi arrangiavo a fare qualsiasi cosa ma nessun datore di lavoro era disposto a mettermi in regola” confessa.

Mi hanno parlato di una zona piena di lavoro, con tante fabbriche.

Nel 2002 con in mano il permesso di soggiorno decide di spostarsi a Fabriano. “Mi hanno parlato di una zona piena di lavoro, con tante fabbriche, la Merloni ma anche molte altre aziende” dice di un’epoca che sembra lontana anni luce, successivamente desertificata da chiusure e delocalizzazioni, “avevo già un figlio, cercavo una stabilità, e ho trovato subito lavoro in una piccola azienda”; una delle imprese del distretto del “bianco” come si definiscono in gergo le fabbriche che producono frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie e cappe di aspirazione come in quella dove lavorava lei all’inizio.

“Nella piccola impresa ho trovato molto contatto umano, le persone ti sostengono, ti aiutano, le condizioni non erano ideali, non c’erano premi di produzione, gli orari erano spesso flessibili. Eppure, lì avevo un nome, un volto. Le persone si parlavano, si aiutavano, ci si sosteneva nei momenti difficili”. Se li ricorda ancora tutti quei compagni di lavoro, è come se li vedesse ancora adesso mentre mi parla di loro, soprattutto le donne: “Mi ricordo di ognuna di loro, sorridenti, disponibili, grandi lavoratrici che hanno dato il massimo non per un giorno o una settimana, ma per anni, e poi il loro pianto disperato quando a causa di un calo di lavoro sono state costrette ad andare via. Questa è la realtà dei lavoratori interinali nelle fabbriche” racconta consapevole in un flusso.

Cosa sappiamo degli operai?

Ma cosa sappiamo degli operai? Mi chiedo mentre Marinela parla. Sono stati artatamente cancellati, spariti dai palinsesti dopo la sconfitta dei 35 giorni alla Fiat del 1980, una linea di demarcazione nella storia del movimento operaio italiano. Ci raccontano di loro solo quando salgono per protesta sulla ciminiera a Portovesme, nel Sulcis, o quelli ex GKN sul traliccio della stazione ferroviaria di Firenze, oppure quando cadono dalle impalcature, sono stritolati dalle macchine, o sono vittime di scariche elettriche, come se questa strage silenziosa fosse inevitabile, perché si lavora e si muore, questo è il costo del capitale.

Che poi i lavoratori non sono tutti uguali, come mi spiega questa donna timida ma molto determinata che oggi è una delegata sindacale della Fiom: “Dove sto io ci sono lavoratori a tempo indeterminato assunti prima del 2015, con l’articolo 18, lavoratori a tempo indeterminato assunti dopo il 2015, senza articolo 18, Lavoratori in staff leasing (interinali con contratto a tempo indeterminato tramite agenzia), che lavorano con noi anche da dieci anni, e lavoratori interinali con contratto a termine. Questi ultimi non hanno diritto al premio di produzione, e nei momenti di calo di lavoro sono i primi a rischiare il posto”.

Ogni minuto cronometrato, ogni pausa contata.

Ma lei voleva andarci a lavorare in una grande azienda perché lì “c’erano più opportunità, in una multinazionale hai diritto ai bonus, ai corsi di formazione, ai premi”, mi spiega, “ma a che prezzo?”, lì diventi “un numero, un ingranaggio nella catena. Dovevi produrre secondo una tabella, ogni minuto cronometrato, ogni pausa contata. Il lavoro è diventato una corsa contro il tempo. Il contatto umano è sparito. Non c’è aiuto reciproco, non c’è solidarietà. Solo competizione e pressione costante”, dice Marinela mentre la osservo curioso e subito dopo scrivo veloce sul mio taccuino le sue parole. Adesso lavora alla Faber, tutti i giorni e per otto ore sulla linea di assemblaggio, quelle “otto ore moltiplicate per tutta la vita” di un verso memorabile del poeta operaio Luigi Di Ruscio, l’ultimo che scriveva degli ultimi.

Dopo 25 anni di lavoro in Italia, Marinela non ha ancora la cittadinanza.

Dopo venticinque anni di lavoro in Italia, Marinela non ha ancora la cittadinanza. Eppure, ormai la sua vita è qui, “non riuscirei a ritornare al mio paese, tornare significherebbe ricominciare da zero, e ho capito quanto è importante integrarsi”. Ma che significa integrarsi? Le chiedo. È una parola che ne nasconde un’altra, sostengo convinto, conformarsi. Lei invece trova che abbia un significato positivo, “viviamo qui come se vivessimo nel nostro paese, anche se manteniamo le tradizioni, significa voler partecipare alla vita politica, sociale, esprimere tutte le nostre esperienze” dice ancora, poi si blocca, smarrita afferma subito dopo: “È difficile mettere insieme le parole”, mentre continuo a scrivere questo piccolo memoriale. “Ecco perché non possiamo girarci dall’altra parte e far finta di non vedere solo perché noi abbiamo un posto fisso. Bisogna invece esporsi ancora di più, per aiutare chi si trova in condizioni diverse, per cambiare leggi ingiuste. Il referendum ci dà questa possibilità”.

Del suo paese, della sua famiglia ha ancora il ricordo struggente dello “stare insieme”, ricorda “le feste, quando ognuno preparava qualcosa di tradizionale fatto in casa, i discorsi, la musica”. Ma ogni volta che torna trova un paese diverso, il suo non c’è più, spazzato via dalla veloce modernizzazione, resta solo in quella che chiama “la vita rurale”, lì è mutato poco, “si nota ancora la povertà, le vecchie case, i contadini che ancora lavorano la terra a mano” racconta.

“All’inizio non mi sono sentita di affrontare il percorso burocratico” ammette, “è complicato, ma adesso ho fatto domanda, solo con l’ingresso della Romania nell’Unione Europea e con più di cinque anni di residenza ho potuto finalmente richiedere il permesso permanente al Comune, e non più in questura, sono in attesa”.

Ore e ore di fila, il gelo negli sguardi dei poliziotti.

Vive qui da venticinque anni, in Italia sono nati i suoi figli, parla la nostra lingua, si è sentita straniera solo quando doveva rinnovare il permesso di soggiorno: “Ore e ore di fila, il gelo negli sguardi dei poliziotti, la paura costante di aver dimenticato un documento e dover ricominciare tutto da capo”. Perché molti lavoratori stranieri non diventano mai cittadini, soprattutto quelli precari, sottopagati, sfruttati nelle terre dei “patrioti” di Fratelli d’Italia, le paludi pontine, dove ventimila braccianti indiani vivono in uno stato di schiavitù, nelle campagne foggiane o nella piana di Gioia Tauro, in edilizia, gli stagionali che si spostano per raccogliere la frutta o gli ortaggi. E anche per gli altri non è facile, per ottenere la cittadinanza bisogna frequentare un corso di lingua italiana, superare un esame, ottenere un certificato penale dall’ambasciata, presentare lo storico di residenza, la certificazione unica dei redditi lavorativi e pagare una tassa di 250 euro.

Ridurre i tempi per la domanda di cittadinanza mi sembra una cosa civile.

“Oggi il sindacato non può più aiutare nella compilazione delle pratiche, bisogna accedere da soli al sito del ministero dell’Interno con Spid e attendere da 24 a 36 mesi per una risposta. Oppure ci si può rivolgere a un avvocato, ma a costi che non tutti possono sostenere”, dice ancora Marinela guardandomi negli occhi. E in questo anno di attesa può anche succedere che un lavoratore perda il lavoro, “allora anche la tessera sanitaria scade e non hai più diritto all’assistenza, ridurre i tempi per la domanda di cittadinanza da 10 a 5 anni mi sembra una cosa civile, significa dare a queste persone la possibilità di integrarsi prima e ottenere una stabilità lavorativa”.

Mentre lei continua a raccontare la sua storia, e a dire che “la cittadinanza è un diritto, perché puoi votare e diventare un italiano a tutti gli effetti”, improvvisamente mi torna in mente la frase dello scrittore Max Frisch quando parlava degli immigrati, tra i quali molti italiani, reclutati dal dopoguerra fino agli anni ’80 per lavorare in Svizzera: “Cercavamo braccia, sono arrivati uomini”.

L’autore

Angelo Ferracuti (Fermo 1960). Ha pubblicato ibridi narrativi come Le risorse umane (Feltrinelli, 2006), Il costo della vita (Einaudi, 2013), Andare, camminare, lavorare (Feltrinelli, 2015), Addio (Chiarelettere, 2016), Gli spaesati (Ediesse, 2018). È tornato al romanzo con La metà del cielo (Mondadori, 2019); poi sono seguiti la biografia narrativa Non ci resta che l’amore (Il Saggiatore, 2021) e il reportage Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia (Mondadori, 2022, Oscar Baobab, 2024), con le fotografie di Giovanni Marrozzini, Il figlio di Forrest Gump (Mondadori, 2024). Scrive per il Manifesto e il Corriere della Sera.

Illustrazione di Silvia Marseglia.

L’iniziativa

a cura di Carola Susani e Davide Orecchio

Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.

Qui tutti i racconti.