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Il racconto
Possiamo collegarci quando vuoi, mi dice Hedi, io sto alla camera del Lavoro tutti i pomeriggi dopo le cinque. Ci presentiamo a distanza, io sono a Roma, lui a Gualdo Tadino. Lui è uno che ha voglia di raccontare, io di stare a sentire.
Hedi Khirat ha 58 anni ed è nato a Biserta, una città di mare nel punto più a Nord dell’Africa, in una casa da cui si vedevano le luci di Pantelleria.
A tre anni ha perso il padre ma è cresciuto in un ambiente familiare pieno di fratelli e sorelle, movimentato, solidale, aperto all’esterno. Hedi deve aver imparato presto a occuparsi della gente.
Ha iniziato a conoscere l’Italia dalla televisione, dalle partite di calcio trasmesse dalla Rai e poi con il lavoro nei villaggi Valtur dove ha fatto il barista dai sedici anni in poi per parecchie estati. Lì era pieno di italiani, pieno, dice. Turisti, ma anche animatori come Fiorello e altri che poi ha rivisto in TV.
Immagino un ragazzo diventato grande in mezzo alle chiacchiere, uno che impara tutto subito e fa amicizia facilmente con molti italiani che rivede da un anno a un altro.
Vieni in Italia, uno come te trova lavoro subito.
Mentre il tempo passa, i fratelli e le sorelle si sposano e lui, il più piccolo, si ritrova a vivere per qualche anno da solo con la mamma che però nell’89 muore. Hedi ha circa vent’anni e deve decidere che cosa fare. Tra gli amici italiani con cui resta in contatto c’è Giancarlo, fabbricante di tende da sole ad Ardea, che gli dice ma che fai lì, vieni in Italia, uno come te trova lavoro subito.
Con il suo aiuto inizia a fare il barista e il cameriere un po’ dovunque nel centro Italia, finché non viene assunto a contratto in una discoteca di Gualdo Tadino e finalmente, nel ‘92, ottiene il permesso di soggiorno. A quel punto è tutto più facile e l’anno dopo può andare a Biserta, sposarsi con Samia, sua fidanzata da tanto tempo, e avere il nulla osta per il ricongiungimento familiare.
Hedi mi parla seduto sul divano, ha una felpa rossa della Fiom di Perugia. Quando è nato Houssem, nel ’95, mi sono messo a cercare un posto fisso, mi dice. Ne cercavo uno e ne ho trovati tre. Ho scelto un posto da metalmeccanico alla TR Italy S.p.A. perché mi avevano detto che la ditta si sarebbe spostata a Fossato di Vico, praticamente dietro casa, a sette chilometri da Gualdo. E mi è andata bene perché le altre due aziende sono fallite mentre io dopo trent’anni alla TR lavoro ancora.
Vedi quando sei destinato per la buona strada, conclude.
Lavora in fabbrica, continua a fare il barista la sera e va in questura ogni giovedì.
Sempre in quell’anno Hedi viene eletto presidente della prima associazione dei nordafricani di Gualdo e da quel momento inizia ad aiutare chi è appena arrivato a ottenere il permesso di soggiorno, a sollecitare le pratiche di ricongiungimento familiare, cose così. Lavora in fabbrica, continua a fare il barista la sera e va in questura ogni giovedì. Nel ‘99 il consolato tunisino a Roma gli chiede di fare da mediatore tra le questure e i lavoratori che avevano fatto formazione in Tunisia. Svolge questo lavoro in più per due anni, ma nel frattempo smette di fare il cameriere, che mica può fare tutto.
Ogni pomeriggio in camera del Lavoro.
Nel 2001 un compagno della Cgil di Marciano gli propone di fare sportello per la Cgil. Da allora, ogni pomeriggio è alla camera del Lavoro. Dà le informazioni tutti i giorni, tutti i minuti. Ucraini moldavi albanesi rumeni marocchini tunisini egiziani algerini bengalesi cubani. Lo vengono a cercare da tutta la fascia appenninica, e se non vengono lo chiamano. Quando escono i decreti li deve spiegare, come quando è cambiata la legge sul permesso di soggiorno, che prima era illimitato e invece dal febbraio 2023 dura dieci anni per gli adulti e cinque per i minorenni.
Ogni tanto Hedi dà informazioni e aggiornamenti in diretta sulla pagina social della radio tunisina, su radio Maghreb di Marsiglia, sulla pagina dell’ambasciata tunisina e sulla pagina della Cgil. Oltre a questo fa altre cento cose: è delegato sindacale da più di dieci anni alla TR Italy S.p.A, è responsabile della camera del Lavoro di Gualdo Tadino, è stato presidente del direttivo provinciale della Cgil di Perugia e in più è portavoce dei 24 centri culturali islamici dell’Umbria. È stato persino candidato all’Assemblea costituente del parlamento tunisino del 2011 quando c’è stata la rivoluzione.
Ma il distacco? Gli domando. Non lo chiedi il distacco sindacale con tutto quello che fai? Nel 2006 me l’hanno proposto e ho rifiutato perché si sarebbe trattato di spostarsi molto e con due figli piccoli preferivo lavorare vicino casa, mi risponde. Adesso, alla mia età, sì, lo prenderei in effetti.
Una cittadinanza conquistata sul campo.
Quella di Hedi è la classica storia esemplare. Verrebbe spontaneo riconoscere a uno come lui un diritto alla cittadinanza per meriti acquisiti sul campo, mentre lo status di cittadino o cittadina della maggior parte della gente che conosco, me inclusa, non ha niente a che fare con azioni compiute, competenze o nulla che riguardi il valore della persona. Siamo nati e nate da genitori cittadini e questo basta. C’è però l’idea che al di fuori dello ius sanguinis la cittadinanza italiana debba essere conquistata al termine di un percorso fatto di prove da superare: non aver commesso reati, guadagnare un certo reddito, conoscere la lingua a un livello ritenuto sufficiente. Insieme a queste c’è anche un’altra prova, fatta di tempo passato nel territorio, giorni mesi e anni che messi in fila costruiscono l’appartenenza al tessuto sociale di un paese.
Dieci anni sono troppi. Passa ‘na vita.
Ma dieci anni sono troppi, dice Hedi, anche perché non sono mai dieci, il sistema ha molti intoppi, subisce ritardi per ogni passaggio e alla procedura bisogna aggiungere sempre qualche anno in più. Passa ‘na vita, ripete. Fino al ‘92 bastavano cinque anni di residenza per avere la cittadinanza, poi è cambiato tutto. Hedi ha potuto fare domanda nel 2006 e racconta di esserci riuscito tutto sommato senza troppi problemi. Non che avessi chissà che scocciature a non essere cittadino, mi dice. Giusto quando volevamo andare in aereo, ecco al ritorno toccava fare la fila con chi non aveva il passaporto italiano. Ci mettevamo di più a mostrare il passaporto che a volare fino a Roma. Perché se non sei cittadino devi perdere un po’ più tempo degli altri.
Molti italiani, penso io, questo test non lo passerebbero.
Quando Hedi ha chiesto la cittadinanza servivano i redditi degli ultimi tre anni, dieci anni di residenza, certificati penali e di nascita del paese d’origine e il casellario giudiziario di Perugia. Adesso è molto più difficile, mi spiega, perché con la procedura on line bisogna scansionare un sacco di documenti e solo per fare la domanda ci si mette un’ora e mezza. Solo per iniziare. Molta gente non lo sa fare. Comunque ora è tutto più lento, si sono accumulate tantissime pratiche perché le prefetture non hanno personale sufficiente. Io poi non ho dovuto fare il test di lingua italiana, non serviva, mentre adesso sì. Per il test d’italiano B1 bisogna studiare due anni se parti da zero, tre o quattro mesi se già parli benino. Molti italiani, penso io, questo test non lo passerebbero.
Penso anche ai giovani, quelli nati in Italia da genitori stranieri che dopo essere diventati maggiorenni hanno un anno di tempo per chiedere la naturalizzazione, altrimenti devono chiedere la cittadinanza per residenza. Quale altro senso può avere quella finestra di un anno se non rendere un pochino più difficile l’ottenimento della cittadinanza a gente che ha passato la vita nel nostro Paese?
Un paese di vecchi, che non vuole nuovi cittadini giovani.
Un paese di vecchi, dove le scuole chiudono, che non vuole nuovi cittadini giovani. Ci sono poi quelli che sono arrivati in Italia da piccoli e hanno fatto le scuole qui. Succede che quando i genitori possono richiedere e poi ottenere finalmente la cittadinanza loro hanno superato i diciott’anni magari da un giorno e quindi devono fare anche loro la domanda per residenza perdendo a volte anni dietro a questa pratica, sempre perché il sistema ha molti ritardi. Ma certo, se si possono mettere ostacoli, perché non farlo.
Io penso sempre ad Asterix e Obelix…
Vuoi un esempio assurdo? Mi fa Hedi. La legge non richiede il certificato penale del paese di origine se si è entrati prima dei quattordici anni nel territorio italiano, però la procedura on line, non si sa perché, la vuole. Quando vai a inserire i dati nella schermata, a un certo punto il sistema lo chiede: se non metti nulla non va avanti. Ma quale certificato penale devi produrre se hai lasciato il tuo paese a sei anni? Poi parliamo dell’originale, mica della copia. Non puoi chiederlo al consolato ma proprio al paese d’origine, bisogna chiamare parenti, amici, devono andare a fare le carte per te, spedirti i fogli oppure affidarli a qualcuno che possa fare avanti e indietro facilmente. Se si scansiona un foglio a caso per procedere con la domanda si sa che arriverà il rigetto per mancanza di documenti e ci sono dieci giorni per ripresentarla. Magari nel frattempo ti sei organizzato, hai preso appuntamento in prefettura e ti puoi far aiutare, insomma alla fine in qualche modo risolvi ma sembrano cose fatte apposta. Io penso sempre ad Asterix e Obelix che devono procurarsi il lasciapassare A38 e vengono spediti di ufficio in ufficio, di sportello in sportello finché Obelix non esce di senno.
Houssem, Sabrine e Sara sono stati fortunati.
Alla famiglia di Hedi è andata bene: quando lui ha preso la cittadinanza suo figlio Houssem aveva 11 anni, sua figlia Sabrine 5. Non si sono manco resi conto di non essere cittadini, dice. La terza, Sara, è nata dopo, quindi lei niente proprio. Ma io volevo partecipare alla vita politica, non è per motivi pratici che ho chiesto la cittadinanza. Certo pensavo ai figli, che si sentono italiani, ma proprio completamente italiani. Lo dice divertito, con una punta d’orgoglio. Il grande è andato un anno a studiare francese a Montpellier: oh, è tornato sette volte in Italia. Non per amore e forse nemmeno troppo per stare con noi, proprio perché gli mancava l’Italia. A un certo punto si è voluto portare dietro le chiavi di casa. Ma vai in Francia, che ci fai con le chiavi in Francia? Gli abbiamo detto. Per sentire l’odore di Gualdo, ci fa. Pensa te.
Hedi è orgoglioso dei suoi figli, Houssem ingegnere biomedico, Sabrine con la laurea magistrale in lingue, Sara che fa il liceo. Gli piace che si sentano, come lui, italiani. Quando l’Italia giocava contro la Francia nel 2006, mi dice, l’Italia stava perdendo e mio figlio piangeva.
Ricordo quella finale, anche mio figlio piangeva, ma perché era nato da una settimana.
Mi viene in mente Beatrice.
Mi viene in mente Beatrice, che ho conosciuto anni fa in una scuola media. Una ragazza dal grande carisma, le piaceva soprattutto cantare e disegnare. Un giorno, era novembre, le ho chiesto in quale scuola superiore avesse in mente di iscriversi e lei mi ha risposto farei l’artistico ma tanto alla fine dell’anno parto. Parti? Sì, vado in Inghilterra, ma non dirlo a nessuno. Io credevo che si riferisse alla fine dell’anno scolastico e invece appena prima delle vacanze di Natale era già andata, lasciando la scuola sotto shock. Suo fratello era un atleta molto dotato che però non poteva accedere alle gare nazionali perché italiano senza cittadinanza, così la famiglia si è trasferita in blocco a Manchester. Ho pensato a lei nei mesi successivi, me la sono immaginata in uniforme con la gonnellina e il maglioncino, ho sentito il suo inglese assorbire lo slang locale. Chissà per chi ha tifato alla finale Italia-Inghilterra degli europei di calcio di quell’anno: per il paese che è stato la sua vita fino a sei mesi prima ma che non l’ha considerata sua cittadina? Non posso esserne sicura, ma mi viene da pensare di sì.
L’autrice
Susanna Mattiangeli scrive, traduce, compone cruciverba, gioca con le parole e organizza laboratori nelle scuole. I suoi libri sono stati tradotti in una ventina di paesi. Nel 2018 ha vinto il Premio Andersen 2018 come miglior scrittrice. È stata nominata Italian Children’s Laureate per il biennio 2023/2024.
L’iniziativa
a cura di Carola Susani e Davide Orecchio
Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.