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Il racconto
– Invece io l’altroieri poi ho conosciuto uno.
– Chi?
– Uno. Come si chiama me l’ha detto, ma non sono sicuro. Sono incerto tra due. Comunque vabbè è lo stesso. Non lo so, non mi è rimasto impresso. Di lui, l’unica cosa, mi è rimasta impressa l’ignoranza.
– In che senso?
– Ma non lo so, gli ho dovuto spiegare tutto io per filo e per segno. Non sapeva cos’era una cooperativa storica, non sapeva che qui ce n’erano tre, una per la verniciatura, una di sabbiatura e una di pontisti, e che ne è rimasta una sola... chissà per quanto. Per fortuna non gli ho dovuto spiegare cos’è il lavoro a cottimo. Ma lui continuava a dire “a chiamata”, quando la chiamata dei turni è rimasta eccome, anzi è pure peggio.
– Vabbè, magari fa un altro lavoro.
Voleva capire, diceva. Che poi ci sono i referendum, dice, e lui deve farsi un’idea.
– E va bene, ma che accidenti voleva da me, allora? E invece mi stava lì appiccicato che insisteva, insisteva. Voleva capire, diceva. Che poi ci sono i referendum, dice, e lui deve farsi un’idea. Ma che idea vuoi farti? Che idea hai bisogno di farti, dico? Quando è evidente che pure a noi ci hanno tolto la terra da sotto i piedi, dopo il lockdown.
– Ma dove l’hai incontrato?
– Sul viale subito fuori dai cantieri. Stavo andando a riprendere la macchina, ringraziando Dio che non mi avevano rimesso il turno prima delle undici ore (lo sai che succede, succede no?).
– Eh!
– Eh. Lui manco quello sapeva, credeva che era tutto regolare, tutto perfetto. Che gliel’ho detto, poi, dal punto di vista dei soldi non è che ci possiamo lamentare, stiamo pure meglio. Il cottimo non c’è più, contributi, ferie, tiefferre, tutto quanto preciso preciso. Salvo il tempo, cazzo. Salvo il tempo. Ma vaglielo a spiegare, a quello.
– Ma che ci faceva, lì al parcheggio nostro?
– Ma no, non proprio al parcheggio, ho deciso che prima di tornare avevo tempo per farmi un birrino e sono uscito sul viale per passare al bar subito fuori. Non c’era nessuno, ho visto. Ne bevo una tranquillo e torno a casa dal bambino, che già mi mancava. Non c’era nessuno, infatti, tranne questo qua.
– Stava dentro al bar?
Dice che lo mandava il sindacato, voleva sapere, capire, registrare. Registrare un cavolo, gli ho detto.
– Sì, beveva seduto a un tavolino, da solo. Subito si è alzato e si è presentato, dice che lo mandava il sindacato, voleva sapere, capire, registrare. Registrare un cavolo, gli ho detto.
– E ci mancherebbe.
– Infatti, no, ma si è scusato subito, non intendeva registrare registrare. Non è un giornalista. Non ho capito bene cosa fa, ma insomma era interessato a noi, alla nostra situazione e a com’è cambiata. Il barista lo conosceva, dice che gliel’ha presentato il segretario regionale, e allora mi sono fidato, quello è uno che ci ha messo sempre la faccia. E mi sono seduto a bermi la birra con lui.
– Ti ha fatto tante domande?
– Abbastanza. Ma solo perché non capiva. Non capiva niente, madonnina, niente, lo capisci niente? Quindi chiedeva. E io dovevo fermarmi e tornare indietro e spiegargli. Spiegargli tutto.
– Tutto di cosa?
Lavorare era una cosa che imparavi a fare insieme.
– Tutto. Di che cos’è una cooperativa storica, per esempio. Di che cos’era. Che io ci sono entrato per mio padre, ma che ci lavorava già mio nonno. Che era una cosa solida. Una cosa antica. Mica come queste nuove ditte dove ci hanno infilati che non sai mai che succede tra un anno, un anno e mezzo. Gli ho dovuto spiegare che da quando siamo sotto questi padroni nuovi è cambiato tutto. Tutto come? Mi faceva. E allora gli ho raccontato, e mi sono ricordato di com’era. Di com’era quando andavi a verniciare un locale e magari si finiva prima di pranzo e poi tornavi a casa perché era finito. Era finito il lavoro. Non c’era da finire il turno. L’orario. E allora mi sono pure ricordato. Di com’era quando a lavorare ci andavi con gli amici, con la gente che girava per casa da quand’eri piccolo, e che lavorare era una cosa che imparavi a fare insieme, e se stavi male o quando avevi una questione di famiglia c’era subito uno che ti sostituiva. Non ti facevano sentire male se non volevi lavorare di notte, o di domenica. Non ti minacciavano. Non ti facevano sentire uno schifio. Una merdina piccola così.
– E lui?
– Ma niente, lui voleva sapere i turni, gli orari di riposo, come si chiamavano queste ditte nuove, se duravano tanto, se duravano poco...
– E tu?
– E io... Io sono stato onesto. Almeno, ci ho provato. Gli ho detto che quelle poche decine di noi che sono rimasti e sono stati riassunti si trovano bene, almeno per i soldi va anche meglio. Figuriamoci, i metalmeccanici hanno il contratto migliore di tutta l’Italia, no?
Ridono
– Però un po’ è vero.
– Certo che è vero, è questo che mi fa incazzare. Se le cose in così pochi anni sono peggiorate fino a questo punto per noi, figurati gli altri. E a noi sono peggiorate o no?
– Eh!
Vagli a raccontare che cos’è lavorare sotto un padrone quando prima a lavorare ci andavi cogli amici.
– Eh. Ma vaglielo a spiegare, a quello. Vagli a raccontare che cos’è lavorare sotto un padrone quando prima a lavorare ci andavi cogli amici. Vagli a spiegare cos’è avere qualcuno che viene da fuori, che non ti sta a sentire. Qualcuno col cronometro in mano tutto il tempo. Quando gli conviene a lui. Perché se devi riposare meno di undici ore lo sai come funziona, no?
– Eh. Che te lo dicono all’ora che stacchi, quando riattacchi il turno dopo.
– Eh. Ma lui niente, ci ha messo un anno a sentirci da quell’orecchio.
– Perché?
– Ma che ne so, aveva in testa le cose già pensate. Già capite. Voleva sapere della sicurezza.
Ridono
– E tu?
– E io, che gli dovevo dire? Che se apriamo il capitolo della sicurezza viene giù l’Italia intera. Che un lavoro quando c’è da farlo subito insistono, insinuano, ti sussurrano “dài”. Il problema fossero solo le scarpe che non sono a norma, come quella volta, te lo ricordi il casino?
– Eh!
Ti fanno sentire che è colpa tua, che non aiuti l’impresa.
– Eh. Il problema è che ti stressano, ti pungolano, ti fanno sentire che è colpa tua, che non aiuti l’impresa, e sotto sotto in questo modo è come se ti dicessero che poi se dopo l’impresa se ne va e ci lascia tutti a casa la colpa è nostra che non ci siamo voluti adattare. Come quando ci siamo sentiti quasi quasi ch’era colpa nostra quando hanno chiuso la cooperativa per le infiltrazioni, che poi si è visto che invece non c’erano, ma ormai... E noi siamo rimasti tutti per strada, senza mangiare né bere, e pure con la sensazione che i colpevoli eravamo noi.
– Gliel’hai raccontato?
– E che c’avevo da nascondere? Che è colpa mia, che è colpa tua, se quelli in cima hanno fatto un bordello e hanno fatto sbattere fuori quasi cento persone, cento famiglie? Dopo il lockdown! Che già non si lavorava niente, poco e niente da un anno e mezzo, due, e buttano fuori la cooperativa dai cantieri per via delle indagini, e noi tutti per strada? Che potevamo fare? Il sindacato, va bene, anche quello, ha fatto quello che poteva. E all’inizio almeno con la prima ditta che veniva da un’altra esperienza a noi operai ci stavano a sentire, ci chiedevano un parere. Pure se mica avevano preso tutti, ti ricordi?
– Me lo ricordo. Mio cugino già allora è rimasto fuori. Non ti dico, per trovare un’altra cosa.
– Eh. Ma quelli almeno qualche soddisfazione te la davano. Che eri tu a sapere del lavoro tuo te lo riconoscevano. E tutto dopo essere stati due o tre mesi senza stipendio, in attesa della cassa integrazione straordinaria. E meno male che noi ce l’abbiamo.
– Sì, sì, ma i turni già li facevano così, come adesso. E poi comunque quanto dura? Ormai lo sai anche tu.
– Esatto. Quanto dura? Esatto. È questo che faticavo a fargli entrare in testa. Quanto dura? Un anno, un anno e mezzo. E poi? Arriva un altro, un’altra ditta, e va bene, ma chi, quando, dove?
– Finora è arrivata.
Ma si può vivere in questa maniera? Coll’ansia che tra un anno e mezzo chissà come va a finire?
– Finora. Ma si può vivere in questa maniera? Coll’ansia che tra un anno e mezzo chissà come va a finire? Un anno e mezzo, in un anno e mezzo di solito fai un altro figlio. Io quanti figli c’ho?
– Uno.
– Tu quanti figli c’hai?
Ridono
– Uno.
– Uno. Infatti.
Restano zitti un momento
– E quello?
– Quello cosa?
– Quello che ha detto?
– Mi ha chiesto chi c’abbiamo adesso.
– E tu?
Vengono da fuori. Sanno tutto loro.
– E io gli ho raccontato queste ultime due ditte come sono fatte. Che vengono da fuori. Che sanno tutto loro. Che non è che manco ti chiedono cosa ne pensi di come va fatto il lavoro che fai da tutta la vita, fosse solo quello. È che proprio si capisce che s’innervosiscono se solo vedono che ti viene in mente di dire la tua. Te lo leggono negli occhi. E te l’ammazzano, la voglia di volerlo dire. Gliel’ho ridetto, gliel’ho rispiegato ancora e ancora, che non è che ci possiamo lamentare del trattamento, anche economico. È come non ti trattano, che ti fa male, che ti fa lavorare stressato.
– Non ti trattano come un cristiano. Sei bersagliato.
Non sei più un uomo. Non c’hai manco il tempo di respirare. Di pensare. Di immaginare.
– Bravo. Vedi che tu lo sai? Sei bersagliato. Non sei più un uomo. Non c’hai manco il tempo di respirare. Di pensare. Di immaginare. Se hai finito il lavoro, anche se è bell’e terminato, fino a fine turno non ti puoi muovere. Anche se hai il ragazzino coi nonni o con un parente, un vicino, un amichetto, e tua moglie pure sta al lavoro, tu resti lì, anche senza niente da fare. Ti senti inutile, ti senti calpestato. Ti senti che te lo fanno apposta per farti sentire piccolo. Se dici che una domenica su due vorresti stare con la famiglia tua, se dici che tutte quelle notti sono troppe... Per non parlare poi degli Rsu, i rappresentanti sindacali, quelli li tengono proprio sotto mira, meglio che si stanno attenti. Ti cambiano mansione, lo fanno apposta per farti lavorare male, per farti sentire peggio. Così poi possono prendersela con te più facilmente.
– Altro che amici.
Io ho fatto sempre l’operaio, ma che cos’è stare sotto padrone lo sto capendo solo in questi ultimi anni.
– Eh. Altro che amici. Io ho fatto sempre l’operaio, ma che cos’è stare sotto padrone lo sto capendo solo in questi ultimi anni. Poi certo che la gente non ci vuole mettere la faccia. Hanno paura. Se non sei d’accordo su qualcosa ti minacciano col trasferimento.
– Delle trasferte gliel’hai raccontato?
– Certo. Certo che gliel’ho raccontato. Non glielo dovevo raccontare? Un mese, un mese e mezzo all’anno via, lontani da casa, e mica tutto insieme, spezzettato. E mica concordato prima.
– Macché.
– Quando mai. Spezzato in cinque, sei, sette volte all’anno, con un preavviso minimo, senza essere sicuro mai di quanti giorni. Che ti tocca organizzarti al volo con la famiglia, chi porta il bambino all’asilo, come fa tua moglie col lavoro suo, chi lo va a prendere, chi ti tiene il figlio al posto tuo. Al posto tuo.
– Senza contare di quant’è brutto starsene lontani.
– Eh. Mica te lo dicono. Tutti a dire, tutti a raccontare di viaggiare quant’è bello, dalla scuola al cellulare. Ma mica te lo dicono, viaggiare quanto può essere brutto quando non l’hai scelto tu, quando vai a lavorare magari con degli sconosciuti, quando gli amici e la famiglia non ti possono seguire. Mica te lo dicono che differenza c’è, tra la trasferta e la vacanza.
– A sentir loro è quasi la stessa cosa.
– Eh. E gliel’ho detto, sai? Gliel’ho detto e gliel’ho ripetuto. “Sai quante volte” gli ho detto “ci penso di andare via? Di scappare da là dentro?”
– Gli hai detto così?
– Così, paro paro.
– E lui?
– Lui mi ha guardato. Mi sa che qualcosa lì ha cominciato a capirla.
– Perché, dici?
E poi è stato zitto. È stato zitto ad ascoltare.
– Perché è stato zitto. Ha smesso di interrompermi continuamente per farmi domande su come funziona o come si chiama o cos’è questo e quello. Ha detto “Perché dici così?” pure lui, come te, più o meno come te. E poi è stato zitto. È stato zitto ad ascoltare. Ed è rimasto zitto pure mentre stavo zitto pure io a chiedermi perché. Perché, se abbiamo il contratto migliore del mondo, o almeno così dicono? Perché, se il trattamento economico e le garanzie in fondo sono meglio? Perché, se i turni sono comunque più o meno rispettati? Perché, se le trasferte e le notti le pagano il giusto e grazie a Dio finora non s’è fatto male nessuno, e meno male che ci sarebbe l’Inail? Perché penso sempre di andare via, se prima non ci pensavo mai?
– E che ti sei risposto?
– Gli ho fatto un’altra domanda, che mi è venuta al posto delle risposte che gli potevo dare.
– Cioè?
Perché Fincantieri non fa un reparto verniciatura suo?
– “Perché Fincantieri” gli ho chiesto, “perché Fincantieri non fa un reparto verniciatura suo?” Perché non fa un reparto pontisti suo? In fondo sono lavori che in cantiere serviranno sempre. Perché li appalta, perché li ha sempre appaltati? Prima alle cooperative, che almeno erano cooperative, adesso a chi viene viene, basta che stia in mezzo tra noialtri e loro?
– Già. Perché? Secondo te perché?
– Pure lui me l’ha chiesto: secondo me?
– E tu?
– E io son stato zitto un altro poco a pensarci su e poi gliel’ho detto. È perché così non parlano con l’uomo. Parlano con la ditta.
– Ah.
– Eh. Capito? Chi se ne frega se la ditta se ne va. Mica ha famiglia la ditta. Mica ha moglie e figli. Mica vuol sempre dire come si deve fare, la ditta. La ditta deve fare e basta. Non si vuol sentire dire grazie, mica si vuol sentire dire “Hai fatto un buon lavoro”. La ditta piglia i soldi per fare le cose. Può pure farle male, entro certi limiti. Anzi, preferisce farle male. Così costa meno e rende di più. Che gliene importa alla ditta, che non è un uomo, non è un operaio, di fare un lavoro fatto bene?
– Ma così è come la ditta ci tratta a noi.
È un contratto. Non è più un lavoro. Nessuno ti chiede che pensi.
– Esatto. Bravo. Il punto è esattamente questo. È tutto dovuto. È un contratto. Non è più un lavoro. Nessuno ti chiede che pensi. Nessuno ti interpella su come è meglio. Su che cos’è un lavoro fatto bene. Su come si fa, secondo te, a farlo bene e a farlo pure meglio. Che tutto quello che hai imparato in una vita di quando lavoravi più sereno, più tranquillo, e pensare al tuo lavoro era un piacere (guarda che ti arrivo a dire!), quando potevi immaginare le cose perché ti lasciavano il tempo di usare la testa, non gliene ne frega più niente nessuno. Altro che dire grazie. Altro che “hai lavorato bene”. Tutto è dovuto. Tutto è troppo poco. Non hai più tempo di star calmo e di sorridere, mentre lavori. Non hai più tempo di essere orgoglioso di quello che fai. Del tuo lavoro.
– Del tuo lavoro.
– Eh. Non è soltanto il tempo che ti rubano per sbrigarti, per dire sì, per adattarti.
– No?
– No. È soprattutto il tempo che ti rubano per dare tempo al lavoro che fai. Il tempo che alla fine ti tolgono al lavoro. Alla fierezza del lavoro tuo. Alla calma, al sorriso di andare al lavoro. Te lo ricordi?
– Me lo ricordo.
Ti hanno rubato il tempo di stare più calmo e sereno.
– Ti hanno rubato il tempo di stare più calmo e sereno. Di sentirti bene per quello che fai, per quello che sai fare. Così stai sempre lì a pensare che devi chieder scusa di qualcosa. Invece di chiedergli perché non chiedon scusa loro, di stare rovinando un lavoro che era fatto bene.
– E lui?
– Mi ha chiesto se intendevo questo, quando dicevo che avevamo cominciato a lavorare sotto padrone.
– E tu?
– Gli ho risposto sì.
– E poi?
– Poi niente. Mi ha ringraziato, ha detto che avrebbe fatto un riassunto, scritto qualcosa.
– Ah. E te la dà da leggere?
– Così ha detto. Ma cosa vuoi che scrive? Scriverà una cosa incasinata che non si capisce niente.
L’autore
Daniele Petruccioli vive a Roma, fa il traduttore di romanzi – ne ha tradotti più di cento – e insegna traduzione. Tra i libri solo suoi, Le pagine nere (La Lepre 2017) e La casa delle madri (Terrarossa 2020, nella dozzina dello Strega 2021 e in cinquina al premio Berto dello stesso anno). L’ultimo è una novella per la collana Pennisole (hopefulmonster editore 2025) che si intitola Viaggio nell’Ade.
Illustrazione di Silvia Marseglia
L’iniziativa
di Carola Susani e Davide Orecchio
Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.
Ci troviamo alle spalle decenni in cui la trasformazione del mercato del lavoro, la proliferazione della condizione di incertezza, le esternalizzazioni, le scatole cinesi dei subappalti, hanno creato una nuova e più forte alienazione nell’agire quotidiano di chi lavora. Siamo arrivati, o siamo vicini, al grado zero del lavoro, ed è tempo di ricominciare a crescere e di riconquistare diritti, o almeno di provarci.
Si lavora di più, si guadagna meno, si lavora peggio e in modo più casuale. Sono questioni che chiamano a un nuovo confronto con l’analisi del lavoro operaio di Simone Weil. La riduzione dell’essere umano a funzione, a macchina, l’annichilimento del pensiero, del mondo spirituale, durante il tempo del lavoro, si è fatta evidente al di fuori del mondo della fabbrica, ha investito il cantiere, i servizi e la logistica governati dall’algoritmo, ha investito il lavoro culturale, il lavoro d’ufficio, il lavoro pubblico e di cura, il mondo della sanità.
Come fa un lavoro così ridotto a essere il tessuto della vita collettiva? Eppure sono poche le circostanze in cui una persona incontra il mondo, vario e complesso, si mette alla prova in azione di fronte agli altri, si rivela a sé stessa, incontra ceti sociali diversi dal proprio, altri stili di vita, altre prospettive culturali, dove le viene richiesto di affrontare le questioni, le difficoltà come essere umano in relazione ad altri essere umani. È il lavoro la circostanza principale in cui questo è avvenuto. Senza lavoro, il tessuto sociale si scolla, la vita, solitaria, appare insensata.
A partire da queste riflessioni, per quanto qui accennate e incompiute, ci piacerebbe fare della campagna referendaria l’occasione per riflettere in controluce sul lavoro che vale la pena. Esiste? C’è ancora la possibilità di lavorare creando il tessuto della vita comune? Quali sono le condizioni perché questo avvenga?