Il racconto

Il rosso acceso viene fuori dal centro della sala asettica, dal punto in cui il camice del paziente si interrompe, sotto la luce bianchissima che tocca la carne viva e mi rimbalza negli occhi. “Lascia, faccio io”, sento il tocco del collega che si mette al mio posto, mentre gli altri rimangono con gli sguardi concentrati sul corpo aperto. Retrocedo di qualche passo, mi accorgo che sono in apnea.

La splenectomia è necessaria quando dopo un incidente la milza è compromessa al punto da richiedere la rimozione. Ci sono persone che vanno e vengono nel corridoio, gli zoccoli degli infermieri si staccano dal tallone per toccare il suolo e poi tornano su. Mi abbasso la mascherina, respiro. La plastica attaccata al viso ha prodotto una costellazione di goccioline attorno al naso, alla bocca. Dentro all’ospedale è impossibile capire che ore siano, quali siano le condizioni metereologiche dell’esterno. Qui c’è una sola, infinita, giornata di luce bianca artificiale, nei corridoi fa più freddo che in sala, all’ingresso del Pronto Soccorso c’è corrente. Il meteo dentro all’ospedale è un discorso a parte, fatto di anticicloni, nuvole e correnti che si muovono attorno a medici, pazienti, infermieri, O.S.S., come in una bolla.

È solo silenzio quello che mi sta attorno mentre opero. Un silenzio come una sabbia bianca.

Aspetto e pian piano anche i suoni ritornano. In sala operatoria c’è chi mette la musica, chi mugugna lo strascico di un motivetto. Per me non importa, è solo silenzio quello che mi sta attorno mentre opero. Un silenzio come una sabbia bianca da cui le parole degli specializzandi, dell’anestesista, degli altri strutturati, del primario, degli infermieri di sala emergono come oggetti ritrovati.

Guardo l’orologio che ho appena riallacciato al polso con un gesto automatico, lo stesso che mi ha fatto sbottonare il camice, in cerca di aria. Segna le cinque e mi ci vuole qualche istante per capire se si tratti di mattino o di pomeriggio. Le cinque del mattino, non possono che essere le cinque del mattino. Mi hanno chiamata ieri mattina, alle undici. Per le ventiquattr’ore di reperibilità. Poi c’è stato un accoltellamento zona stadio, due incidenti con lo scooter ad alta cinetica e uno con il monopattino, non grave. Ho sonnecchiato tra un’operazione e l’altra sul lettino lasciato vuoto ieri sera da un paziente, con il camice addosso, senza preoccuparmi che le lenzuola non fossero state sostituite. Ogni volta mi ha risvegliata una chiamata sul cellulare, un istante per capire cosa ho attorno, per ricordarmi che sono in reperibilità ventiquattr’ore.

Un’altra chiamata dal P.S., faccio la pipì strizzando gli occhi per il dolore provocato dalla cistite e scendo al piano terra. È un’appendicite da operare il prima possibile. Il paziente è giovane, vedo il suo volto di sfuggita mentre gli O.S.S. lo preparano per l’intervento. Mi gira la testa, mi cade di mano il fascicolo che l’infermiere mi ha appena allungato. I genitori mi aspettano nel piccolo studio del P.S. che usiamo per comunicare alle famiglie cosa sta succedendo e cosa faremo adesso. Spiego l’urgenza, si farà in anestesia generale, l’anestesista è già arrivata. Mi fanno domande confuse, sono agitati. Il padre continua a chiedermi come possa essere successo tutto d’un colpo, la madre scrive al cellulare, manda un messaggio vocale che cattura senza dubbio anche la mia voce che ripete "Non sappiamo quanto ci vorrà ma è un intervento di routine, purtroppo capita di frequente."

Quello sguardo di terrore misto a indecisione, sfiducia, che ho imparato a riconoscere da quando lavoro qua.

Il padre non si calma, la madre apre la porta e chiama qualcuno, un amico, un altro parente, non saprei dirlo. Io guardo l’ora, il telefono squilla, devo andare in sala operatoria. Il padre mi prende per il polso e mi guarda fisso negli occhi, ha quello sguardo di terrore misto a indecisione, sfiducia, che ho imparato a riconoscere da quando lavoro qua.

Mi dice: "Ma possiamo almeno incontrare il chirurgo? Parlare un momento col dottore?".

"Sono io la chirurga", rispondo, e cerco di uscire velocemente dalla porta per dirigermi verso la sala perché il tempo è poco e non possiamo tenerla occupata più del necessario, o ritarderemo le prossime operazioni.

La madre dice qualcosa alle mie spalle, sento un rumore di voci, scarpe che mi inseguono per un tratto, un cellulare che squilla. So cosa stanno commentando, che secondo loro sono inesperta, che sono quasi una bambina, che non posso essere io a tagliare e a mettere le mani dentro il corpo di loro figlio. Non mi fermo, non mi volto perché ora non posso permettermi di sentire i loro dubbi su di me, le loro proteste, le critiche per come tutto questo viene gestito, per la sanità che va a rotoli, per le tasse che paghiamo e guarda che servizio ci offrono.

Prima di entrare in sala penso “one, two, forty-one”, è lo stupido testo di una canzone che mi ripeto in testa da quando studiavo Medicina, ogni volta prima di un esame imminente. Mi serve per trovare la concentrazione, è una sorta di tre, due, uno, mi dico che ora ci sono solo io, l’equipe e il paziente. Un collega però mi taglia la strada un secondo prima che entri in sala, "Bisognava fare prima l’altro codice rosso".

Cerco le forze per dire "Facciamo questo poi l’altro", e mentre lui risponde "Chi sei tu per decidere" infilo la porta ed entro. Prima finiamo, prima liberiamo la sala.

Non mi fa notare a ogni occasione che sono una donna e che sono giovane.

Riconosco l’altro strutturato dal colore della cuffia, un giallo acceso, da cui capisco che per fortuna si tratta di Gianni. Ci siamo specializzati insieme, lo conosco, è competente e non mi fa notare a ogni occasione che sono una donna e che sono giovane. Ci hanno fatti entrare in sala operatoria quando eravamo entrambi troppo giovani, ci hanno fatto operare senza la supervisione di un primario, abbiamo iniziato a tagliare, ricucire riproducendo i gesti che avevamo visto compiere da altri durante la Specializzazione, là dove sulle pagine patinate del Netter avevamo studiato esserci arterie, fegato, milza. Avrebbero dovuto ricordarselo cinque anni fa, quando avevo bisogno di aiuto, di guida, che ero giovane, ripeterlo adesso non serve a nulla, se non a screditarmi.

L’infermiere in appoggio all’anestesista dice qualcosa, io mi volto verso l’altra infermiera che inizia a passarci i ferri. Cerco di spazzare via dalla testa le facce dei genitori del ragazzo che stiamo operando, le loro voci che mi inseguono in corridoio.

L’operazione va bene, finisce presto, siamo stati bravi. Mi abbasso la mascherina e ricomincio a respirare. Salgo con l’ascensore per tornare al lettino libero che avevo scovato in reparto ma mi accorgo che sono le otto e mezza, la reperibilità è finita. Torno all’armadietto, metto il camice a lavare, mi specchio di sfuggita e mi accorgo che le mie labbra sono bianche di sete.

Esco nel rumore dell’ospedale che si risveglia la mattina, i furgoni che portano le brioche e i pasti pronti al bar nell’atrio, i colleghi che corrono per sbrigarsi a entrare in servizio.

Calcolo quante ore mi separano dall’inizio del mio turno, quello previsto dal calendario settimanale, e che devo fare per forza, non importa se ho passato le ultime ventuno ore qui dentro, da quando mi hanno chiamata ieri mattina. Oggi è martedì, attacco alle otto di stasera, ripasso mentalmente mentre cerco le chiavi dell’auto nella borsa. Qualcuno grida qualcosa nel parcheggio e impiego qualche secondo per capire che si sta rivolgendo a me.

Un uomo con la camicia che svolazza fuori dai jeans viene verso di me. Il suo viso si sovrappone nella mia mente a decine di altri, finché non capisco che è il figlio di una donna dimessa la scorsa settimana.

"L’abbiamo dovuta riportare qui stanotte! Ehi, mi hai sentito? Non dovevate dimetterla! Visto cosa hai fatto? Stronza!"

Nel parcheggio non c’è nessuno che possa aiutarmi, avvisto una famigliola che accelera il passo diretta all’ingresso fingendo di non vedere la scena e un ragazzo che mette in moto uno scooter senza fare caso a noi. C’è una guardia per la sicurezza all’ingresso del Pronto Soccorso ma da qui è impossibile che ci veda. Calcolo quanti passi mi separano dall’auto e inizio a camminare veloce, senza voltarmi verso di lui, senza rispondergli. L’uomo mi si avvicina sempre più, gridando che sono una troia, una puttana, una stronza. Mi chiudo dentro con la sicura e provo a respirare. Giro la chiave con la mano che mi trema pensando ai complimenti che mi avevano fatto una volta, quando ero ancora specializzanda, “hai la mano fermissima, una mano da chirurga”. Inserisco la marcia e cerco di fare retro ma l’uomo si è messo dietro di me e batte i pugni sul baule perché vuole che mi fermi. Faccio manovra verso sinistra, sfioro una moto parcheggiata di traverso che si muove ma non cade e corro via.

Corro, come se avessi qualcosa di cui vergognarmi, qualcosa da nascondere.

Corro, come se avessi qualcosa di cui vergognarmi, qualcosa da nascondere, mentre mi tornano alla mente i dettagli della vicenda della madre di quell’uomo. Novantadue anni, terapia farmacologica in reparto per una settimana. Il venerdì sera avevo deciso di dimetterla, dovevamo liberare dei letti e, al posto suo, avrei preferito passare la notte a casa con la famiglia piuttosto che in un ospedale. Il figlio dapprima, al telefono, si era rifiutato di venire a prenderla, poi, quando era arrivato, aveva messo in piedi una scenata. Era venuto fuori che approfittando della madre ricoverata aveva prenotato un weekend fuori porta e riportare la madre a casa significava far saltare la vacanza.

Mentre mi dirigo sulla via di casa sbaglio strada due volte e prendo un rosso. C’è un pedone che attraversa a un semaforo, lentissimo, lo guardo e mi sembra di riconoscere un paziente, o il parente di un paziente, non lo so.

Sono ormai quasi le nove e mezza quando trovo un mezzo parcheggio vicino casa, per metà lascio l’auto fuori dalle strisce ma non ce la faccio più, ho bisogno di rientrare. Quando giro la chiave nella serratura sento un lieve graffiare dall’altra parte. La gattina mi salta in braccio appena mi vede, "Scusa, piccola", mormoro. Lascio cadere lo zaino a terra e per prima cosa cambio l’acqua alla sua ciotola, prendo un pugno di croccantini e lo distribuisco su un piattino pulito. Le accarezzo la schiena mentre mangia, il suo piccolo corpo caldo, felice per il mio ritorno e per il cibo, mi commuove. Dovrei farmi una doccia e prepararmi qualcosa da mangiare, da ieri mattina ho smozzicato solo un tramezzino che sapeva di plastica e un paio di barrette al cocco e cioccolato prese alla macchinetta. Mi riempio due bicchieri d’acqua fino all’orlo e li mando giù, quindi mi butto sul divano, tirandomi sulle gambe la coperta su cui di solito dorme la gattina.

Mi sveglio sentendo il suo peso sulla pancia e le fusa. Sono le due del pomeriggio. Guardo il cellulare e cerco i messaggi di Marco. Mi ha scritto “tutto bene?”, “oggi allora non passi da casa?” “quando ti rivedo?”

Calcolo mentalmente fra quante ore tornerà. Se sono le due mancano ancora cinque ore perché possa sperare di vederlo, sempre che il suo capo non lo trattenga “per fare team building” o l’ennesimo straordinario in azienda, in quel caso non ci vedremo nemmeno oggi. Per non parlare di quando invece finalmente ci incrociamo ma dobbiamo stare tutta la serata su WhatsApp a rispondere io ai miei colleghi e lui ai suoi.

Ai pranzi che facciamo con le nostre famiglie, una volta al mese, qualcuno non manca mai di accennare al fatto che sarebbe ora di fare dei figli. Vorrei rispondere che a malapena ci vediamo, io e il mio compagno, che le mestruazioni non mi vengono da tre mesi per lo stress, che prima di fare dei figli bisogna fare una casa, una famiglia, un posto confortevole, bisogna fermarsi e prenderci cura di noi, capire come fare ad amarci in mezzo a questo casino, e poi, vorrei aggiungere, il problema non è solo il fare dei figli ma il prendersene cura dopo che questi figli li hai fatti.

Quando sei una chirurga di Pronto Soccorso i momenti di riposo non coincidono mai con quelli degli altri, non sono le domeniche, il Ferragosto, il Capodanno, ma non sono nemmeno i sabati e le domeniche, nemmeno le sere al posto delle mattine, la notte al posto del giorno. Rispondo a Marco: “Sono a casa, attacco il turno alle 8” e liscio il pelo della gattina che mi osserva con le palpebre mezze abbassate.

Penso alla vita che farebbe questo figlio, se mai decidessimo davvero di averlo.

Penso alla vita che farebbe questo figlio, se mai decidessimo davvero di averlo. Quanto tempo avremmo, da dedicargli? Uno di noi due dovrebbe stare a casa e alla fine dei conti quella persona sarei io. Lo so perché è successo a tutte le mie colleghe che si sono azzardate a diventare madri. Quando Gianni ha detto chiaramente che avrebbe dovuto prendere dei giorni per stare con sua figlia la risposta più comune è stata “tua moglie non ce la fa da sola?” Le famiglie si aspettano che a casa ci stia tu che sei donna, la gente attorno si aspetta che a casa ci stia tu che sei donna, e tu stessa inizi a pensare che a casa dovresti starci tu sennò sei nata snaturata, sei un mostro, un orrore di donna e di madre.

Forse è per questo che quando i pazienti, i colleghi, il primario mi vedono con il camice addosso non possono fare a meno di ricordarmi che sono una donna, sui trent’anni. Forse hanno ragione loro, forse nonostante gli infiniti anni di studio, la specializzazione, il lavoro totalizzante, la rinuncia a tutto il resto, forse, in definitiva, per questo Paese io sono semplicemente una donna giovane, il cui destino era lampante prima ancora che sostenessi il primo esame di Medicina, prima ancora di qualsiasi decisione e nonostante qualsiasi decisione.

Torno ad addormentarmi masticando questi pensieri e scivolo in un sonno inquieto, in cui rivedo il rosso acceso nel corpo di un paziente, che forse è un rosso acceso di un bambino che nasce, che forse è il rosso acceso di una ferita che attraversa me e che nessuno vede.

La gattina gioca sul tappeto con una pallina di carta che Marco ha accartocciato, mi alzo dal divano e mi costringo a fare una doccia. Coi capelli ancora bagnati friggo un uovo in padella, abbrustolisco due fette di pane. Mi siedo sul bordo dello sgabello nel cucinino non abitabile del nostro bilocale in affitto troppo caro e troppo brutto. Noto che l’unica pianta grassa che era sopravvissuta sta ingiallendo e con un dolore insensato, troppo tagliente per la morte di una pianta, la prendo e la butto nell’umido.

Leggo i messaggi di Marco “vengo a casa” e dopo un po’ “scusami, alla fine non riesco, c’è troppo da finire”.

Pulisco il piatto nel lavello, la t-shirt che ho addosso puzza di muffa, qualcuno di noi si è dimenticato di nuovo di stendere il bucato per troppo tempo. Mi cambio e vado in camera, il letto è disfatto. Marco non lo sistema mai sia perché la mattina è di fretta e se ne dimentica sia perché non la considera una cosa poi così importante. Ripenso al lettino dell’ospedale dove mi sono buttata a singhiozzo per tutta la notte e faccio una cosa senza senso. Risistemo per bene tutto il letto e poi, quando la coperta e le lenzuola sono stese e senza grinze, ci entro dentro. Guardo il telefono, mi sono arrivati troppi messaggi su WhatsApp, sono quasi tutti del lavoro, tranne uno di mia madre e uno di un’amica che non riesco mai a richiamare. Sono le sei del pomeriggio, imposto la sveglia tra un’ora calcolando il tempo che mi servirà per percorrere il tragitto in auto e per prepararmi prima di uscire. Alle otto attacco il turno in ospedale.

Questo racconto è stato scritto a seguito di interviste fatte a dottoresse che lavorano nell’ambito della Medicina d’Emergenza e di Pronto Soccorso, della Chirurgia e dell’Anestesia in Italia. Le ringrazio per avermi dato la possibilità di affacciarmi nel loro mondo.

L’autrice

Natalia Guerrieri, scrittrice, sceneggiatrice e drammaturga, ha vinto il Premio Zeno per romanzi editi con il suo esordio Non muoiono le api (Moscabianca, 2021). Si occupa da tempo del tema del lavoro, su cui ha scritto Sono fame (Pidgin, 2022), finalista al Premio internazionale Inge Feltrinelli, e lo spettacolo teatrale La prova. È cofondatrice del collettivo di scrittura This Writing Room. La sua ultima pubblicazione è la novella Falena, edita da Zona 42.

Illustrazione di Silvia Marseglia.

L’iniziativa

a cura di Carola Susani e Davide Orecchio

Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.

Qui tutti i racconti.