Il racconto

Abbiamo appuntamento nel primo pomeriggio sulle panchine del giardinetto davanti all’ingresso dell’ospedale San Giovanni di Roma. A pochi passi dall’ingresso del Pronto Soccorso, sento una donna urlare fortissimo, ripetere una A allungata a voce altissima, più volte. Uno scippo.

Il ragazzino nero che l’ha derubata attraversa con una strana calma lo stradone dell’Amba Aradam (toponimo di un massacro, durante il quale le forze d’invasione di Mussolini usarono gas mostarda contro gli etiopi, lasciandone ventimila a morire), ma viene raggiunto da un altro ragazzo, magrissimo e bianchissimo, che, con una mossa improvvisa, lo stende a terra, poi un uomo gigantesco, sopraggiunto, prende a calci il corpo disteso, che stringe forte al petto la borsetta rubata. I due gliela strappano dalle braccia e la riconsegnano alla donna, che fugge. Nel frattempo arriva la polizia. Altri due ragazzini in divisa sollevano il ladro da terra, ma lui si lamenta fortissimo, si divincola, cerca di slanciarsi contro quello che l’ha picchiato. Il ladro viene portato via, il picchiatore si allontana, urlando ancora contro il già picchiato Vent’anni de pugilato, viè qua che te gonfio!

Roma, Roma. Roma ha un nome e una postura femminili. In essa meglio si chiarisce quella serie di coincidenze, dalle concatenazioni sul momento illeggibili, che a distanza di tempo e spazio formano il disegno che, ad alcuni, piace chiamare destino.

Sono due persone, quella che era con Stefano e quella di adesso.

L'incontro con Giulia avviene dunque mentre ancora rifletto su queste laboriose coincidenze. Ha un sorriso luminoso e mi invita a sedere insieme a lei su una panchina di marmo battuta da un sole già estivo. Dico Raccontami di te, tu chi sei. Mi dice Sono due persone, quella che era con Stefano e quella di adesso.

Stefano e io ci siamo incontrati al lago di Martignano, io avevo diciassette anni e lui dieci anni più di me. Orfano di padre a dodici anni, a tredici ha iniziato a lavorare, negli ultimi anni era impegnato con il fotovoltaico in Africa (torna l’Africa), soprattutto Eritrea, e io avevo studiato da infermiera perché lui mi aveva incoraggiato. Per tredici anni sono stata in un hospice, prima come infermiera poi come caposala e, dagli anziani, ho imparato a vivere appieno finché c’è tempo, ho imparato che è importante dare dignità a ogni istante della vita, propria e degli altri.

Il 20 luglio 2020 ero di riposo, quindi Stefano è uscito mentre ancora dormivo. Al risveglio, trovo il suo messaggio di buon anniversario, gli rispondo e comincio a fare le faccende di casa. Verso le 13:30 sto prenotando il nostro ristorante sul lago per la cena, quando sento un pianto dirotto, un urlo strano, diverso da tutto, provenire dal piano di sopra, dove abitavano i miei genitori. Salgo verso casa loro attraverso la scala esterna. Quando sono a metà della scala, mio padre è costretto a dirmi che Stefano è morto.

Per quattro giorni, chiedo solo aiuto.

Io rispondo Telefona a Stefano, perché gli devo dire delle cose. Continuo a ripetere Chiamalo, gli devo parlare. Intanto, sento un dolore forte in mezzo al petto, un dolore fisico, qualcosa che si spacca nel mio corpo e io faccio fatica a respirare, l’aria non passa attraverso la tremenda oppressione che sento. Per quattro giorni smetto di mangiare, chiedo solo aiuto. Per quattro giorni, chiedo solo aiuto. Se fossi stata di turno al lavoro, avrei avuto la notizia attraverso i servizi televisivi. La sua faccia era ovunque, nei TG. È stata una fortuna, che quel giorno fossi di riposo.

Quando gli hanno fatto l’autopsia, speravo gli trovassero qualche male, invece era sanissimo, aveva una lunga aspettativa di vita. Ho provato una grande rabbia, poi ho capito che farmi male così non aveva senso. Ho la fortuna di essere viva, non posso farlo fallire due volte, rovinandomi la vita che ho, e che lui mi ha insegnato ad apprezzare. Per un po’, mi è presa l’ansia di dimenticare la mia vita con lui, mi era venuta la mania di ricordare tutto, anche cosa si era portato per pranzo quel giorno. Poi capisco che non dimentichi niente, tutto quello che Stefano mi ha insegnato sta alla base della mia vita, è impastato alla mia persona. Stefano mi ha insegnato la vitalità, e che conta l’indispensabile. E basta.

Ha avuto paura, ed era solo.

Me lo fanno vedere solo una settimana dopo l’incidente, il giorno del funerale. Avrei voluto essere con lui, perché – data la grande altezza dalla quale è caduto – Stefano ha avuto il tempo di capire che stava per morire. Ha avuto paura, ed era solo.

Gli ho preso la mano, gli ho rimesso la fede al dito.

Ho voluto aprire il sacco dove stava, ho toccato le ossa fratturate, avevo bisogno di concretizzare la sua perdita, perché non mi sembrava una cosa reale. Se non l’avessi visto, non avrei mai creduto che non era più vivo. Gli ho preso la mano, gli ho rimesso la fede al dito. La data incisa nella fede di matrimonio è la stessa che c’è sulla tomba. Per fortuna mi sono sposata, altrimenti non avrei avuto potere decisionale, o l’avrei condiviso con la famiglia, ma, dopo ventisei anni d’amore, solo io potevo sapere cosa lui volesse. Ora riposa accanto a nonna Maria, nella tomba di famiglia a Cesano, stanno spalla a spalla, lui e lei che mi ha cresciuta e ha avuto un destino simile al mio, è rimasta vedova da giovane, ma era una donna per il popolo, faceva beneficenza a tutte le associazioni, faceva la spesa alle persone che avevano bisogno. Stanno bene insieme, quei due, si adoravano. Io, li raggiungerò. Guarda, porto il bracciale che lui indossava quand’è caduto. Guarda, qui c'è il segno dell’urto.

Come faccio a sentirmi sfortunata?

Io vivo con un piede nel presente, in questa mia realtà senza di lui, e con l’altro piede in un passato bellissimo. Non ci siamo fatti mancare niente, non ho rimpianti, abbiamo goduto la vita insieme, abbiamo viaggiato tanto. Quando la gente muore, tutti dicono che erano bravi. Gli amici pensavano di raccontarmi cose meravigliose di lui, che era generoso, sempre sorridente, mi hanno dato un’immagine di noi come una casa sempre aperta. Ma io lo sapevo, che lui era così, perché questo era bravo davvero. Come faccio a sentirmi sfortunata?

A febbraio 2021 c’è stata la prima udienza. Quel giorno il gatto, che era sparito da sei mesi, è tornato a casa. Io credevo di essere impazzita, lo vedevo dietro la porta a vetri e non avevo il coraggio di aprirla, perché credevo che avrei scoperto si trattasse di un’allucinazione. Invece, era proprio il gatto Mario, era tornato e non se n’è andato più.

Non abbiamo ancora una sentenza.

Ora, maggio 2025, ancora non abbiamo una sentenza. Di chi è stata la colpa di quella caduta? Aspetto le risposte alle mie domande, aspetto la verità. Ho bisogno di utilizzare tutto quello che capirò per salvare altri, voglio offrire agli altri la verità, perché questa mattanza di lavoratori, finisca. E se non avessi avuto un lavoro, se avessi avuto un mutuo, dei figli, come avrei fatto? Io, alla fine, sono fortunata. Ma gli altri? Io devo dignità, devo verità. A lui, a tutti. Su di lui come uomo, mi resta un’unica domanda: chissà se Stefano ha capito quanto amore dava. Ma a uno che dà amore, cosa importa, di avere riconoscimento?

L’autrice

Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, insegnante, autrice e conduttrice. Ha vinto, tra gli altri, il premio Napoli, il premio Montale e il premio Vittorini, ed è stata semifinalista e finalista al premio Strega. Tra i suoi ultimi libri: Serie fossile (Crocetti 2015), Il bene morale (Crocetti 2017), Seed and other poems (Agincourt Press, NY 2025), Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi 2024), Dove non mi hai portata (Supercoralli Einaudi 2022), tradotto in otto lingue e Splendi come vita (Ponte alle Grazie 2021), Il canto delle donne (Robinson Repubblica 2025). Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi paesi.

Illustrazione di Silvia Marseglia.

L’iniziativa

a cura di Carola Susani e Davide Orecchio

Collettiva ospita un gruppo di scrittrici e scrittori che aderiscono alla campagna referendaria della Cgil che si concluderà col voto dell’8-9 giugno. Alla domanda: “Cosa possiamo fare per questa campagna?”, queste “penne” hanno trovato la risposta in quello che sanno fare, scrivere, e quindi in un atto di militanza narrativa. I racconti sono il risultato, il resoconto potremmo dire, dell’incontro che ciascuna scrittrice (o poeta) e scrittore ha avuto con una lavoratrice o un lavoratore. Sono la resa testuale di dialoghi preziosi soprattutto per gli autori, che hanno potuto guardare e ascoltare l’obiettiva realtà, e restituirla in una storia scritta, in un ritratto.

Qui tutti i racconti.