La scorsa notte (tra il 21 e il 22 ottobre) è venuto a mancare Aris Accornero, un grande studioso del mondo del lavoro, amico di Rassegna Sindacale, di cui è stato anche direttore dal 1968 al 1971. Nato ad Asti nel 1931, professore emerito di Sociologia industriale presso l’Università La Sapienza di Roma, era stato anche dottore emerito in Giurisprudenza, titolo conferitogli nel 2000 dall’Università di Ferrara. La sua esperienza nel mondo del lavoro inizia nel 1946 come operaio, alla Riv di Torino, da cui viene licenziato nel 1957 per rappresaglia in quanto comunista.

Nel 1959 viene edito il suo primo libro Fiat confino. Storia della Osr (1959), cui segue la pubblicazione di numerosi saggi, tra cui San Precario lavora per noi (2006), fino all’ultimo Quando c’era la classe operaia. Storie di vita e di lotte al Cotonificio Valle Susa (2011).

La sua attività di studio e di ricerca è stata di riferimento per numerose analisi del lavoro. Ha curato l’annuale rapporto Cnel sul mercato del lavoro. Ha scritto la voce “lavoro” per l'Appendice 2000 dell'Enciclopedia Treccani. Faceva parte della direzione de Il Diario del Lavoro ed era nel comitato editoriale dei Quaderni di Rassegna Sindacale.


Un'intervista a Rassegna del 2006 sulla flessibilità nel lavoro (di Davide Orecchio e Carlo Ruggiero)

CGIL: RESTA UN PUNTO DI RIFERIMENTO
La Cgil esprime “profondo cordoglio” per la morte di Aris Accornero, professore di Sociologia industriale dell'Università di Roma La Sapienza. “Numerose le ricerche e i libri che nel corso della sua carriera ha svolto e scritto – ricorda in una nota –. Di lui si ricorda in particolare l’attenzione che ha sempre dedicato all’universo Fiat e ai cambiamenti della condizione lavorativa dei giovani”. 

“Professore emerito, apprezzato ricercatore, fine intellettuale non ha mai scordato le sue origini e la cultura appresa in fabbrica – aggiunge la confederazione –. Nel corso della sua carriera è stato sempre vicino ai lavoratori e al sindacato, in particolare alla Cgil. La sua scomparsa lascia un grande vuoto. I suoi consigli, sempre dati con il rispetto di chi conosce e apprezza l’autonomia del sindacato, i suoi studi e i suoi insegnamenti sui cambiamenti avvenuti dal Novecento ad oggi nel mondo del lavoro, a partire da quelli sui metodi di produzione e organizzazione, sulla rappresentanza e le relazioni industriali, per arrivare alle riflessioni sulla precarietà, continueranno ad essere un punto di riferimento per tutta l’organizzazione”.

“Aris Accornero era solito dire: ‘Quello del sindacalista non è un mestiere vero e proprio. È una missione. C’è dentro militanza e volontariato’. A noi piace ricordarlo così, come un operaio, un sindacalista che è riuscito a riempire la propria vita con la militanza, lo studio, la missione per elevare le condizioni e la dignità dei lavoratori”, conclude la Cgil.

L'INTERVISTA: QUELLO SCONTRO TRA NOVELLA E LAMA

Nel 2010 Rassegna Sindacale ha intervistato Aris Accornero in occasione dei 40 anni dello Statuto dei lavoratori. Per ricordare lo studioso scomparso riproponiamo qui, in versione integrale, la sua conversazione con Enrico Galantini

Il 1970 è un anno complicato, caratterizzato da un vero groviglio di avvenimenti. Nella politica, con le vicissitudini che attraversa il centrosinistra, la crisi e poi il governo monocolore dc. Nella società, con il varo dello Statuto dei lavoratori, la legge 300, che viene promulgata il 20 maggio. Nel sindacato, con il processo dell’unità sindacale, con il primo 1° maggio unitario a piazza S .Giovanni a Roma, con le accelerazioni e le frenate che il progetto subisce. Aris Accornero allora lavorava in Cgil, a strettissimo contatto con il segretario generale Agostino Novella (oggi si direbbe nello staff), occupandosi della stampa, di quella della confederazione (a lui si deve la stagione più vivace dei Quaderni di Rassegna Sindacale) ma anche di quella unitaria: in quegli anni fu anche direttore della rivista Sindacato, promossa appunto da Cgil Cisl e Uil. Incontriamo il professor Accornero per parlare, quarant’anni dopo, di quell’anno, di unità sindacale e di Statuto dei lavoratori. Ma per farlo la nostra conversazione parte con un un piccolo passo indietro, all’anno precedente, il “mitico” 1969, l’anno che con l’autunno caldo ha cambiato il mondo del lavoro e la società del nostro paese, l’anno in cui il tema dell’unità diventò di colpo prioritario nell’agenda sindacale.

Il 1969 per i sindacati è anche stagione di congressi. Quello della Cgil si tiene a Genova a giugno ed è il primo tra quelli delle confederazioni. Il tema dell’unità è al centro della discussione. Accornero vive tutto l’avvenimento dall’interno: assieme a Renzo Rosso, stende sia la relazione che le conclusioni di Agostino Novella, il segretario generale che pochi mesi dopo lascerà la Cgil. “C’erano attese notevoli da parte dell’organizzazione, con paure e speranze. Il nodo vero non era tanto l’unità: Novella in verità era scettico ma all’interno della confederazione e fuori, nelle fabbriche, la spinta era fortissima e del resto il processo era andato avanti proprio su impulso della stessa Cgil. No, il nodo di quel congresso fu il problema delle incompatibilità”. Le incompatibilità erano una sorta di preliminare all’unità, la prova del nove della volontà delle confederazioni di andare oltre le appartenenze, sia politiche (meglio: partitiche) sia istituzionali, per costruire un sindacato davvero unito. “Il passaggio delle incompatibilità – spiega Accornero – era ritenuta la prova vera per la Cgil, in quanto più politica: più politica nei partiti, più politica in Parlamento – la Cgil aveva in Parlamento più rappresentanti che la Cisl e la Uil messe insieme. Siccome poi i metalmeccanici premevano uniti per questa che sembrava una scelta emblematica, la Cgil era pressata anche da dentro”. C’erano due diversi tipi di incompatibilità: quella relativa alle cariche pubbliche, e su questo terreno già Foa e Trentin avevano dato l’esempio dimettendosi dal Parlamento; e quella relativa alle cariche politiche. Due tipi di incompatibilità evidentemente apparentati ma che venivano vissuti dal segretario generale della Cgil in modo del tutto distinto. “Novella non aveva nessun problema a dimettersi da parlamentare – ricorda Accornero –. Non accettava però di doversi dimettere dall’Ufficio politico del Pci e di perdere così la sua carica politica. Non ne capiva il perché”. 

Rassegna Ma perché questo rifiuto? 

Accornero Ho lavorato a lungo con lui. Novella era in primis un uomo politico, come tanti della sua generazione, ed era un vero comunista. Per combinazione ha fatto il sindacalista, e l’ha fatto assai bene, ma questo è avvenuto perché il partito l’ha mandato alla Cgil. Avrebbe potuto fare altrettanto bene il presidente della Camera o il presidente della Lega delle cooperative. Aveva chiarissima la consapevolezza di che cos’era quell’organizzazione chiamata Partito comunista italiano. E non voleva perdere il posto nell’Ufficio politico, che riteneva non meno – forse più – importante della segreteria generale della Cgil. Nei 13 anni di direzione della Confederazione era diventato un ottimo sindacalista, ma non voleva assolutamente rinunciare alla sua posizione politica. Io non so se, dicendo questo, ne sto parlando bene o male, ma bisogna mettersi dal suo punto di vista. 

Rassegna Dicevi prima che Novella era comunque scettico sull’unità… 

Accornero Sì, e anche per questo la relazione al congresso era lunga e non all’altezza della situazione: girava intorno alla questione, dava un colpo al cerchio e uno alla botte, ma nella sostanza frenava – del resto, o dicevi sì alle incompatibilità senza farla tanto lunga, oppure, specie se cercavi di distinguere, ti accusavano di non volere niente. Renzo e io avevamo provato ad “aprire” di più, ma Novella ci fece cambiare due o tre volte quel che avevamo scritto. Il fatto era che a lui (e non solo a lui) non sembrava chiaro che cosa volessero quelli che volevano l’unità sindacale. Su questo era intransigente. Diceva: volete fare l’unità sindacale? D’accordo. Ma come? Ci sono le condizioni? È possibile avventurarsi su un sentiero del genere senza garanzie?

Rassegna Insomma a quell’unità era contrario. Come era contrario il Pci?

Accornero Su questo era veramente sulla linea del partito. E questa sua convinzione era appesantita da come vedeva farsi l’unità sindacale nella Fiom, che con Fim e Uilm dette vita di lì a poco alla Flm. Non gli piaceva quello che stava succedendo. Non credeva proprio all’unità sindacale, non è che non la volesse, ma non la riteneva fattualmente possibile. E oggi devo dire che fu buon profeta. Una cosa contro cui si scagliava, parlando con noi, era la pariteticità. Non concepiva come la Cgil potesse avere lo stesso peso della Uil. 

Rassegna Pensava anche alle differenze culturali tra Cgil Cisl e Uil? 

Accornero Fu molto colpito, come del resto lo fui anch’io, dalla svolta repentina e un po’ facile di Storti, il quale aveva capito che nella Cisl stava vincendo la spinta unitaria. Quando Storti al congresso parlò di “potere contro potere” – che di per sé non vuol dire niente, ma siccome di potere la Cisl non parlava mai... –, io stesso scrissi che ormai era andata, visto che avevano dovuto cambiare linguaggio e il cambiamento del linguaggio è quasi più importante del cambiamento della linea. Ma la Uil la vedeva come il fumo negli occhi. Non si fidava di nessuno dei suoi dirigenti. Nella Uil all’epoca c’erano repubblicani, socialdemocratici e socialisti. Novella aveva ben presente gli esiti disastrosi della recente fusione socialista, dalla quale avevano perso entrambi i partiti.

Rassegna Ma, nonostante i dubbi del segretario generale, il congresso voleva l’unità... 

Accornero La sua posizione non reggeva. Lui se ne rese conto. L’idea unitaria era più forte. E del resto di unità era facilissimo parlare con entusiasmo e con retorica, come fece Foa a quel congresso. “Per imparare a nuotare non bisogna restare sulla spiaggia bensì lanciarsi in acqua” disse Foa, frase accolta da un’ovazione, ma i problemi veri venivano ignorati. Dopo la seconda giornata di dibattito, la sera Novella ebbe uno scontro assai duro con Luciano Lama. Scontro al quale volle che Renzo Rosso e io (lui era il suo segretario) assistessimo, imbarazzatissimi. Novella disse a Lama che la questione dell’incompatibilità era stata posta contro di lui e, soprattutto, che si faceva delle grandi illusioni sull’unità: non bastava evocarla e poi fare il sindacato unico, abbandonando tutti gli ormeggi. Era una cosa molto difficile, per la quale ci voleva molto più tempo. Insistette molto sul tempo. 

Rassegna Ma il congresso ormai andava in un’altra direzione... 

Accornero Novella ci lasciò allibiti: non voleva fare le conclusioni. Voleva andarsene, visto come andavano le cose. Renzo si trattenne con lui per calmarlo. Poi scrivemmo delle conclusioni molto diverse dalla relazione. Più di apertura. E relativamente brevi. Lavorammo tutta la notte e all’ora di colazione gliele facemmo leggere. Non so se abbia dormito quella notte. Il nostro testo comunque lo convinse. Ma era ancora troppo sconvolto e, davanti ai congressisti, lo lesse malissimo. Le conclusioni però vennero accolte da un’ovazione: in qualche modo, seppure in zona Cesarini, questo gli evitò di perdere il congresso. Molti pensarono che Novella si fosse convinto, ma alcuni mesi dopo, quando il direttivo votò le incompatibilità, si dimise per non dover rinunciare al suo incarico nell’Ufficio politico del Pci. Era una persona seria. 

Rassegna In qualche modo fu travolto dagli eventi... 

Accornero L’intrico di cose che sono capitate in quel periodo è stato davvero micidiale. Ripensandoci adesso, mi sembra che tutto fosse trainato dall’entusiasmo e che ci fosse pochissima gente che rifletteva. Anche il dibattito nella Cgil e nella Cisl era assai poco con i piedi per terra. Basta pensare al ruolo dei consigli. Erano o no il sindacato? E che ruolo avevano esattamente? 

Rassegna I consigli prefiguravano un sindacato diverso, un sindacato unitario, no? 

Accornero All’epoca c’era una netta divisione tra Trentin e Garavini. I consigli erano il sindacato o ci voleva ancora il sindacato nelle fabbriche? Secondo Garavini, e all’epoca anche secondo me, i consigli non erano il sindacato. I consigli erano la nuova commissione interna, che non era mai stata il sindacato. Il sindacato doveva avere la sua organizzazione, le sezioni sindacali occorrevano veramente. I consigli di fabbrica erano la rappresentanza del lavoro, erano i lavoratori. E con ciò stesso si dice che erano il sindacato ma anche che non lo erano. Del resto non è mai stata data una definizione di ciò che erano i consigli di fabbrica. Non c’è nessun testo che dicesse il loro ruolo. 

Rassegna E dire che i sindacati non hanno mai lesinato sullo scrivere documenti... 

Accornero Questa mancata definizione è stata poi risolta sussumendo la lettura che ne diede lo Statuto dei lavoratori. È lo Statuto che ha salvato capra e cavoli, dicendo che nelle fabbriche c’era la rappresentanza sindacale aziendale. Poi lo si è chiamato consiglio di fabbrica e lo si è eletto su lista bianca (ma anche questo dice quanto poco sindacale fosse). Gli stessi sindacati riluttavano a far proprio quello strumento. Soprattutto la Cisl e la Uil, che erano meno presenti in fabbrica e avrebbero voluto, soprattutto la Cisl, un vero sindacato. Figuriamoci se volevano che quello fosse il sindacato: ma se lo votavi su scheda bianca, come faceva a essere il sindacato? È uno di quei nodi italiani in cui l’aspetto normativo, come sempre ambiguo, scivoloso o indefinito, è stato risolto nella prassi. Con lo Statuto c’è stata un’accettazione compromissoria della definizione. E una volta che accetti la definizione, in generale accetti anche la cosa. 

Rassegna A proposito di Statuto, non fu facile intervenire per legge su quelle materie, no? 

Accornero Nelle fabbriche, all’epoca, si stava proprio male. E come ricordava Gino Giugni, che all’epoca faceva anche l’avvocato, se difendevi i lavoratori, nelle cause di lavoro era impossibile vincere. Tanto che lo stesso Giugni tre anni dopo scrisse la riforma del processo del lavoro. La situazione richiedeva un intervento. Qui intervenne il partito socialista. Con Nenni e con Brodolini. Che dovettero superare le resistenze non solo del Pci ma anche, almeno all’inizio, degli stessi sindacati. In Parlamento c’erano dei progetti di legge ma, come ho scritto più volte con un po’ di cattiveria, erano tutti più o meno uguali: “Articolo 1. La Costituzione si applica anche nelle fabbriche”. Che era poi la vecchia idea di Di Vittorio: la tutela, dall’alto della legge, del lavoratore come persona. La domanda vera a cui doveva rispondere una legge, però, era: chi è che difende il lavoratore? Questa è la domanda pragmatica della scuola del Wisconsin, dove Giugni aveva studiato (e dove anch’io sono stato), questo il lascito di Selig Perlman: il problema è tutto lì. C’è qualcuno che ti difende o no? Lo Statuto era questo. Lo Statuto era il sindacato. Lo Statuto era la promozione di un soggetto atto a tutelare i lavoratori, perché neanche una legge con trentamila obblighi sarebbe bastata a cambiare le cose in fabbrica.

Rassegna Tu hai conosciuto in prima persona la fabbrica negli anni 50. E poi l’hai studiata come sociologo per tanti anni. Come cambia la fabbrica con lo Statuto? 

Accornero Lo Statuto dà un grande respiro al lavoratore come persona in generale, anche se questo non era il fine specifico della legge. I consigli ottengono un riconoscimento di cui all’epoca avrebbero anche fatto a meno – il rapporto di forza era talmente favorevole che non sembrava necessaria una legge perché i consigli potessero difendere i lavoratori. Il meccanismo che garantì una svolta è stato l’articolo 28, quello che sanzionava i comportamenti antisindacali. Questo articolo, che all’inizio nessuno sapeva usare, fece sì che si poteva far rimangiare al padrone quello che stava facendo, lo si poteva fermare. Questo, prima dell’articolo 28, era impensabile. Il sindacato, per ottenere lo stesso effetto, doveva fare scioperi notevoli. Ma non li avrebbe mai fatti per un caso singolo. Prendi quello che successe a me: quando alla Riv fui licenziato per rappresaglia, scese in sciopero il mio reparto, mica la fabbrica... 

Avere uno strumento che ti permette di fermare il padrone fu l’arma fondamentale. Ed era un’arma connaturata al paradigma “Statuto uguale promozione sindacale”. Secondo me quello fu il passo che legittimò davvero e definitivamente lo Statuto. Lo stesso Giugni ha scritto che nessuno si aspettava che quelle due righe dell’articolo 28 avessero una tale cogenza sui comportamenti padronali. 

Rassegna Torniamo all’esperienza dell’unità. Perché non ha funzionato? 

Accornero Da un lato né la Dc né il Pci la volevano. Non credevano, prima ancora di non volerlo, che Cisl e Cgil potessero andare d’accordo. Figuriamoci stare insieme. C’era fortissima una questione di interessi e di prestigio (la paura di non avere più il “proprio” sindacato, il timore di perdere l’apporto di tanti attivisti, di non avere più le mani nel lavoro: era una perdita enorme) ma c’era anche una sincera incredulità: come era possibile che, mentre in Parlamento comunisti e democristiani litigavano duramente tutti i giorni, nel sindacato andassero d’amore e d’accordo? Ma i problemi non venivano certo solo dai partiti. Anche nelle confederazioni c’erano grossi problemi. 

Rassegna Quanti nel sindacato credevano davvero alla possibilità dell’unità? 

Accornero Secondo me almeno la metà della classe dirigente dei sindacati non ci credeva. Nella leadership Uil questa percentuale saliva al 70-80 per cento: da loro convivevano tre partiti in un sindacato e la vita era già impossibile. Sulla dirigenza Cisl e Cgil sarebbe stato interessante avere qualche approfondimento sociologico ma purtroppo non c’è. Ad esempio: erano più d’accordo le categorie o le strutture orizzontali? Sembrerebbe che fossero più d’accordo le categorie. Ma non tutte. Quelle che non erano d’accordo lo erano in maniera assai decisa. I braccianti, ad esempio, i postelegrafonici, gli elettrici: tutte situazioni molto connotate. Erano i metalmeccanici che tiravano. E i territoriali, più politici, erano necessariamente meno convinti. Certo c’erano aree e città con situazioni più spinte, e altre meno. Dal lato dei lavoratori, io penso che avessero un’idea vagamente utile dell’operazione. Anche qui, però, niente peana, semmai la coscienza di quanto fosse più razionale avere un solo rappresentante invece di tre… 

Rassegna Tu dirigevi Sindacato, la rivista unitaria. Come fu quell’esperienza?

Accornero Era una bellissima rivista. Ma fu un’esperienza assai faticosa. Quante difficoltà per avere un articolo, discutere un menabò, preparare un sommario. D’altronde le confederazioni avevano e hanno culture molto diverse. C’erano e ci sono interessi molto diversi, anche di carriera. Basta pensare a oggi. Le divisioni politiche di un tempo non ci sono più, i sindacati si sono resi autonomi dai partiti e addirittura tutti fanno riferimento al partito democratico. Questo ha aiutato minimamente l’unità sindacale?
No. Aveva ragione Novella.

Dall'archivio di Rassegna.it, 29 aprile 2010