Il 23 luglio del 1993 le parti sociali e il governo di allora sottoscrissero un Protocollo destinato a segnare profondamente la storia e l’evoluzione delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro di questi ultimi 30 anni. Per dirla con le parole di Gino Giugni, ispiratore e firmatario – nella sua duplice veste di maestro del diritto sindacale e di ministro del Lavoro in carica – di quel testo: la vera carta costituzionale delle relazioni industriali italiane. 

Il Protocollo Ciampi, come sarebbe passato alla storia, è un accordo ampio e ambizioso. In estrema sintesi e per titoli, esso si pone innanzitutto un obiettivo macro-economico, individuando nella politica dei redditi, a cui si collegava una precisa politica dei prezzi e delle tariffe, lo strumento per far crescere le retribuzioni, evitando la spirale salari-prezzi, contribuendo per questa via al raggiungimento dell’obiettivo di riallineare il tasso medio di inflazione italiano a quello europeo.

Con esso si formalizza l’architettura dei due livelli della contrattazione collettiva, si istituiscono le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu); negli investimenti in ricerca e innovazione, nell’obiettivo della piena occupazione, nell’istruzione e nella formazione professionale, si individuano d’ora in poi le chiavi per un nuovo modello di sviluppo basato sull’allargamento della base occupazionale e sulla qualità del lavoro individuate come obiettivo delle politiche di bilancio, dei redditi e monetarie. Ad esso si allegava poi uno specifico protocollo in cui le parti si impegnavano ad avviare la contrattualizzazione del lavoro nel pubblico impiego, aprendo una stagione nuova per il sindacato in tutti i settori della pubblica amministrazione.

Le premesse

È bene oggi ricostruire il contesto in cui quell’accordo era maturato, presupposto di una riflessione necessaria sul nostro attuale sistema di relazioni industriali sfidato da una nuova fiammata dell’inflazione che aggredisce una dinamica salariale da anni molto al di sotto di quella dei nostri partner e competitori. Una riflessione inseparabile, ancor più di quanto non lo fosse già nel 1993, dalle caratteristiche della nostra specializzazione produttiva a cui si collega la composizione sociale della forza lavoro sempre più precaria. Una riflessione che deve fare i conti necessariamente con un modello di sviluppo che non può più basarsi su una crescita lineare e illimitata, ma sulla centralità dell’ambiente e delle transizioni a essa connesse. 

All’inizio del decennio Ottanta il deterioramento delle condizioni economiche determinato dalla fine della parità aurea, aggravato dalla crisi energetica degli anni Settanta e dalla stagflazione conseguente, diventa il pretesto per un cambiamento di segno delle politiche economiche lungamente preparato dal blocco conservatore in tutti i paesi occidentali, partendo dalla Gran Bretagna con l’insediamento del primo governo Thatcher. In sostanza, la crisi e l’inflazione verranno utilizzate per archiviare il patto fordista-keynesiano che era stato il pilastro della politica economica e sociale post bellica del “trentennio glorioso”. 

In piena fase recessiva

Complice di ciò la difficoltà di delineare, in seguito alla fine degli equilibri di Bretton Woods, un quadro di regole tali da permettere una virtuosa prosecuzione delle politiche di sostegno alla domanda aggregata: come dimostrerà l’ambiziosa – ma purtroppo fallimentare – esperienza della Union de la gauche in Francia. È in questo contesto che in Italia si iniziano a sperimentare tecniche di scambio politico, sulla carta analoghe ai modelli di relazioni industriali consolidatisi tra gli anni Cinquanta e Sessanta in alcuni paesi del centro e del nord Europa, dentro un quadro di politiche economiche keynesiane e condizioni di pieno impiego (appunto il trentennio glorioso). 

La riproduzione dello schema avveniva però dentro una fase recessiva, senza obiettivi keynesiani di politica economica ma con l’obiettivo principale di rientrare gradualmente dall'inflazione attraverso politiche di moderazione salariale. Si parte, non a caso, dalla disdetta di Confindustria dell’accordo sul punto unico di contingenza del 1975 che avvia l’offensiva contro la scala mobile.  Proprio nella consapevolezza che la stessa carica inflazionistica e recessiva era cronicizzata in quella fase dello sviluppo economico e fortemente dipendente dai petroldollari vaganti e periodicamente svalutati e non solo dalla dinamica prezzi salari, la Cgil lancerà il Piano di Impresa come alternativa all’approccio esclusivamente incentrato sul contenimento della dinamica salariale che si faceva strada nella letteratura economica (Modigliani per primo) e negli ambienti di governo. 

Si affacciavano, infatti, ristrutturazioni che avrebbero richiesto, ancora di più, una capacità di intervento del sindacato nella dimensione aziendale associata ad una politica industriale che orientasse il cambiamento delle strategie di impresa verso nuovi modi di produrre. Un progetto molto impegnativo che puntava sul recupero delle priorità rivendicative dell’Autunno Caldo indirizzandole consapevolmente alla trasformazione del modo di lavorare e produrre. Su questo si può leggere, di Bruno Trentin, Politiche sindacali, programmazione e piano d’impresa. Relazione al consiglio generale della Cgil 8-12 ottobre 1979, in “Democrazia industriale idee e materiali”.

Ma nei fatti, la nuova stagione di negoziati centralizzati, a partire dal protocollo Scotti del 1983, andava nella direzione opposta, allontanando il sindacato, stretto nella morsa della crisi economica e dell’inflazione a due cifre, e condizionato dalle dinamiche interne ai partiti di governo da questa dimensione progettuale di protagonismo nelle politiche dello sviluppo. L'accordo sul taglio alla scala mobile del 1984, senza la firma della Cgil, con tutto il suo portato di contrasti e di scontri politici esasperò ulteriormente questa tendenza di cui l'emanazione del decreto di San Valentino sulla predeterminazione dei punti di contingenza rappresenta il suggello. 

Dalla frattura del ‘92 al riscatto del ‘93

La prassi dei patti triangolari sembrava ormai tramontata quando all'inizio degli anni Novanta il sindacato verrà nuovamente coinvolto ma in un clima di ancor più aspro rigore economico, determinato dalla necessità di rispettare i parametri di Maastricht. La crisi istituzionale e politica determinata da Tangentopoli, l'attacco speculativo contro la nostra moneta e le misure draconiane di tagli alla spesa pubblica e l’avvio delle privatizzazioni ne rappresentavano la cornice. In questo quadro prende corpo ciò che ne La città del lavoro, Trentin definirà “una nuova offensiva di Confindustria apparentemente contro la scala mobile ma in realtà e soprattutto contro la contrattazione collettiva”. Trentin, com'è noto, firmerà l'accordo del 1992 che sanciva il blocco totale della contrattazione decentrata e della contrattazione territoriale – oltre a decretare la fine della scala mobile – solo nel tentativo di salvare l'unità sindacale e dietro enormi pressioni politiche, per poi dare le dimissioni che verranno respinte. Un passaggio drammatico nella vita di Trentin e della Cgil.

L’accordo dell’anno successivo rappresenta senza dubbio un riscatto, a partire dall’obiettivo – raggiunto – di edificazione del primo vero sistema di relazioni industriali fondato sul riconoscimento formale e istituzionale della contrattazione decentrata e della democrazia sindacale sancita nelle Rsu, un modello di canale singolo, comparativamente peculiare, erede dei consigli di fabbrica. Un’architettura contrattuale imperniata su due livelli negoziali specializzati e non sovrapposti, base di una nuova politica dei redditi incentrata sull’inflazione programmata. 

Lo schema è noto. Il meccanismo di negoziazione salariale prevedeva una consultazione trilaterale tra governo, organizzazione dei datori di lavoro e sindacati sulla politica economica, con particolare riferimento alla programmazione degli obiettivi di politica dei redditi ampiamente intesi: inflazione, crescita, occupazione e implicitamente produttività, salari, profitti, investimenti attraverso due sessioni annuali, in prossimità di Def e legge Finanziaria. In sostanza, il salario di primo livello si dovrebbe muovere con i prezzi al consumo, sostituendo la scala mobile nella tenuta del potere d’acquisto, ma anche – clausola tanto rilevante quanto sottovalutata – tenendo conto degli andamenti di settore. 

Il secondo livello avrebbe fatto riferimento ai “margini di produttività eccedente quella eventualmente usata per aumenti retributivi nel Ccnl”. L’idea che il sindacato si limitasse a svolgere nel contratto collettivo nazionale sul piano dei salari una mera funzione tariffaria, sostituendosi alla scala mobile, non era mai stata la posizione della Cgil, per quanto l’accordo del 1992 ne avesse sancito il superamento. Del resto sono chiare le parole dello stesso Trentin in un’intervista dal titolo evocativo, “Piano con gli entusiasmi”:  “Il modello può non fallire se le responsabilità saranno distinte e i confronti a tre saranno realmente articolati sul merito dei problemi e non sulla retorica delle convergenze” e a premessa, con ancora maggiore chiarezza: “Il conflitto è il fondamento della democrazia, se non c’è conflitto o diritto al conflitto la democrazia rischia di essere messa in questione” (R. Mania, A. Orioli, Dossier. L’accordo di San Tommaso, Ediesse, Roma 1993).  

Il contesto, i problemi irrisolti e quelli emergenti

Il protocollo matura in una stagione che vede il mainstream conservatore condizionare la politica economica dei paesi occidentali, a prescindere dal colore dei governi. L’ossessione della nascente governance economica dell’Ue per l’inflazione avrebbe determinato una delle ragioni principali della crisi stessa dell’Eurozona di questi anni. Non è la sede per approfondire questo passaggio; basti solo ricordare che tutta l’impostazione della politica dei redditi non poteva che risentire di questa gabbia concettuale all’interno, peraltro, di un contesto di grande fragilità politica. 

Siamo chiamati a entrare nell’Ue senza più la leva svalutativa, ma con un rapporto deficit-Pil fissato al fatidico 3% e quello debito pubblico-Pil al 60% (parametri, com’è noto, privi di riferimenti nella letteratura economica). Il famoso “vincolo esterno”, da alcuni teorizzato come la chiave per riformare il paese; sappiamo com’è andata e quanto fosse regressiva questa tesi. Se la maturazione del protocollo avviene in questo contesto, la sua messa in pratica sul piano della politica dei redditi risente fin da subito dell’obiettivo di allineare l’inflazione alla media dell’Unione europea, altro presupposto per entrare nella moneta unica. 

Le proposte della Commissione Giugni

I limiti del protocollo si erano evidenziati già nella prima fase. Non a caso nel 1997 la Commissione Giugni (istituita per verificarne la prima applicazione) avrebbe avanzato alcune proposte di riaggiustamento, relative in particolare a una maggiore copertura della contrattazione decentrata, territoriale oltre che aziendale; la necessità di dare piena attuazione all’art. 39 della Costituzione relativamente all’efficacia erga omnes dei Ccnl funzionale a contrastare il fenomeno già all’epoca emergente dei contratti pirata; una diffusione delle Rsu sul modello dei settori pubblici; l’allargamento dell’efficacia dei contratti a tutti i lavoratori, includendo il lavoro parasubordinato.

Naturalmente la sostanziale disapplicazione del protocollo nelle parti che più avrebbero tutelato il potere d’acquisto delle retribuzioni da parte dei governi successivi ha pesato e non poco. Ad esempio, sul terreno del controllo dei prezzi e delle tariffe, su una previsione più realistica dell’inflazione effettiva, sulla mancata corresponsione del fiscal drag. Nel 2009, tramite un patto e un accordo-interconfederale separati, senza la firma della Cgil, il Protocollo Ciampi viene significativamente emendato in almeno tre punti: 1) alla concertazione “politica” del tasso di inflazione programmata subentra ora il dato che ne fornisce un ente “tecnico”, quale l’Istat; 2) tale dato consiste in un inedito indice armonizzato dei prezzi al consumo al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (Ipca-Nei) evidentemente regressivo; 3) la durata della parte economica dei Ccnl viene prolungata da due a tre anni, unificandosi alla parte normativa che si riduce dai quattro precedenti. 

Ad aggravare il deterioramento del quadro si aggiungerà, due anni dopo, il decreto Berlusconi-Sacconi (il famigerato art. 8), dettato dalla Bce nel quadro del suo piano austeritario per una aziendalizzazione del sistema contrattuale, tramite clausole di uscita dal Ccnl, dalle causali estremamente ampie e potenzialmente erosive. Una misura a cui si accompagna il blocco della contrattazione collettiva e delle assunzioni nei settori pubblici che avrà un impatto significativo sulla dinamica salariale. Il quasi concomitante Testo Unico su rappresentanza e contrattazione collettiva (2011-14), nel recepire per via pattizia il modello del pubblico impiego, non è bastato ad arginare il corrosivo combinato disposto dall’insieme delle modifiche apportate fra il 2009 e il 2011. A rinnovi salariali troppo dilazionati e con esclusioni delle voci energetiche, si è prima aggiunto il fenomeno della contrattazione pirata, poi il doppio shock in sequenza fra pandemia e inflazione, e – soprattutto nel settore dei servizi privati – un accumulo di ritardi semplicemente intollerabile. 

La stagnazione dei salari

Il bilancio di questi anni è, in sostanza, una stagnazione di lungo periodo dei salari reali che impietosamente ci ricordano le statistiche salariali, nazionali e internazionali. Una perdita, dal 1990 al 2020, del 2,9% del potere di acquisto (Ocse, 2023) a fronte di una crescita a doppia cifra dei salari nei paesi i partner e competitori diretti. Nel nostro paese sempre di più si è poveri anche lavorando. Questa oggettiva deflazione salariale ha impattato negativamente sulla domanda interna, così come sugli investimenti, legittimando un modello mercantilista povero, che ha sostituito le svalutazioni della moneta con una svalutazione del lavoro.

Le relazioni industriali sono inevitabilmente connesse alla morfologia del nostro sistema produttivo e alla sua specializzazione: un tessuto composto prevalentemente da micro e piccole imprese. Non è un caso che dalla fine degli anni 80 la curva degli investimenti in ricerca delle imprese cala progressivamente, con buona pace degli impegni assunti nel protocollo del 1993, e aumenta il nostro debito tecnologico: compriamo tecnologia in misura crescente. Di più, proprio i mancati investimenti degli anni passati a fronte di un aumento dei profitti, favoriti da una dinamica molto contenuta delle retribuzioni, hanno determinato il divario tra la produttività delle imprese italiane e quella dei nostri partner commerciali. Su questo ha pesato la dismissione progressiva dei laboratori di ricerca delle grandi aziende a partecipazione statale come esito del processo di dismissione dell’Iri e, naturalmente, gli scarsi investimenti pubblici in R&S. Ovviamente una competizione di costo piuttosto che su base tecnologica porta con sé conseguenze inevitabili sulla priorità da attribuire alla formazione dei dipendenti, come emerge chiaramente nel VII Rapporto nazionale per lo sviluppo delle competenze professionali nell'impresa sostenibile curato con il contributo della Fondazione Di Vittorio per Fondimpresa. 

Serve lo Stato

Senza l’intervento diretto dello Stato è impossibile modificare la specializzazione produttiva, i bonus e gli incentivi alimentano solo la tendenza in atto. Avendo, in sostanza, fatto della competizione da costi la propria leva principale sui mercati internazionali, ciò che ne è scaturita è quell’angusta dinamica delle retribuzioni e della domanda interna, oggi scandalosamente sotto gli occhi di tutti. E da cui, sollecitati anche da una importante recente direttiva europea, sta crescendo nel paese una forte richiesta per ripensare il tema del salario minimo, nel quale la legge può offrire un supporto all’indispensabile ruolo della contrattazione collettiva, soprattutto se si riuscirà finalmente a dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione.

Una menzione a parte meriterebbe il mercato del lavoro. La legislazione, che ha progressivamente legittimato l’uso della precarietà, ci consegna oggi una occupazione caratterizzata da discontinuità e sottoccupazione, due elementi che inevitabilmente incidono sulle retribuzioni e contribuiscono ad abbassare il salario medio annuale. 

Quali prospettive?

La ripresa di un confronto su basi più avanzate, con l’accordo interconfederale del 2018, che contiene innovazioni giustamente ben utilizzate e ampliate nei rinnovi di categoria, lascia sullo sfondo alcune grandi questioni, a partire dalla validità generale dei Ccnl e quindi dall’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione. La partecipazione democratica dei lavoratori è oggi un nodo centrale ancor più di quanto non lo fosse nel 1993, perché alla crisi della politica si risponde solo allargando la partecipazione diretta e dando peso alle scelte delle lavoratrici e dei lavoratori. Ecco, se dovessimo riscrivere il protocollo del 1993, insieme alla crescita dei salari come obiettivo strategico e non subordinato alle compatibilità di un vincolo rivelatosi negativo per la stessa Ue, dovremmo partire dalla riconversione ecologica basata sulla decarbonizzazione come strategia vincolante e inderogabile per una nuova politica dello sviluppo basata sulla sopravvivenza della vita umana. 

Ma la storia non si fa con i se. Oggi serve una grande mobilitazione collettiva per affermare la priorità della crescita dei salari, del miglioramento delle condizioni di lavoro, del superamento della precarietà e parafrasando Stiglitz, da ultimo, per ricordare a tutti che non esiste crescita infinita in un mondo finito. Quindi la transizione ecologica e un nuovo modello di produzione e consumo sono un obbligo non una semplice necessità. Venuta meno la leva svalutativa che aveva accompagnato le fasi di crescita del nostro paese avremmo già da tempo dovuto scegliere, senza dubbio alcuno, la via di una politica dello sviluppo basata su istruzione, scienza e tecnologia, assumendo l’ambiente come vincolo e fattore trainante. Oggi siamo consapevoli dell’urgenza di una transizione che per essere rapida deve essere equa, come affermato ripetutamente dall’Ilo, così come nel manifesto dei sindacati europei dell’industria. 

In conclusione, riflettere collettivamente su questo lungo trentennio è necessario ancor di più se vogliamo ricostruire un sistema di relazioni industriali alla luce del contesto attuale. Come Fondazione Di Vittorio, partendo dall’ultimo numero dei Quaderni di rassegna sindacale dedicato al tema dei salari e dell’inflazione che presenteremo il 14 Settembre al festival Luci sul lavoro intendiamo favorire questa discussione programmando più appuntamenti sul tema.

Francesco Sinopoli, presidente Fondazione Di Vittorio