“Tutto pare come sospeso - scriveva il 16 novembre 1957 Pier Paolo Pasolini su Vie Nuove raccontando il giorno dei funerali di Giuseppe Di Vittorio - , rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città”.

Sette anni prima di Palmiro Togliatti, 27 anni prima di Enrico Berlinguer, la morte di Giuseppe Di Vittorio è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana. Un lutto che si ripropone sostanzialmente in forma analoga nell’agosto 1964 durante i funerali del Migliore (nella liturgia comunista i funerali hanno sempre avuto un’importanza rilevante. Le masse che vi prendevano parte volevano certamente salutare il leader scomparso, ma contestualmente testimoniare che loro c’erano e ci sarebbero sempre state. Questo valeva in Unione Sovietica ma anche in Italia).

Si calcola che almeno un milione di persone accompagnò in silenzio il feretro di Palmiro Togliatti da Botteghe Oscure a piazza San Giovanni: sette anni dopo Renato Guttuso immortalerà nel celebre quadro di grandi dimensioni I funerali di Togliatti quel corteo e quella piazza (nel 1966 Pier Paolo Pasolini la racconterà nel suo Uccellacci e uccellini, interpretato da Totò e Ninetto Davoli e prodotto da Alfredo Bini, come dice la canzone che apre la pellicola).

È lo stesso Guttuso a raccontare la genesi dell’opera: “Cominciai col disegnare più volte il profilo di Togliatti. Qua il primo problema. Gli occhiali. Era difficile renderlo a tutti riconoscibile senza gli occhiali…. Circondai il profilo con un collage di fiori ritagliati da alcune riviste di floricultura. Poi cominciai a mettere, attorno a quel punto focale, i ritratti dei suoi compagni, quelli con i quali aveva avuto i più stretti rapporti di lavoro, nell’esilio, in Spagna, in Unione Sovietica. Tenendo conto dei rapporti con Togliatti e non della loro presenza effettiva ai funerali” (nella folla, rigorosamente in bianco e nero, si riconoscono infatti tra gli altri Lenin, Gramsci, Berlinguer - che proprio nel 1972, anno in cui Guttuso realizza l’opera, viene eletto segretario del Pci - Longo, Di Vittorio, Amendola, Pajetta, Ingrao, Natta, Nilde Iotti, papà Cervi, Dolores Ibarruri, Angela Davis, Stalin, Brezhnev e lo stesso artista auto immortalatosi accanto al fotografo Mario Carnicelli).

Racconterà anni dopo Giorgio Amendola:

Venne il momento della partenza del corteo. Alla bara furono resi gli ultimi commossi saluti. Una donna inginocchiata continuò a pregare, quando già la salma era stata portata a braccia fuori dal palazzo. Quarantotto ore era continuata la lenta, ordinata, reverente sfilata. I comportamenti diversi indicavano la vastità del tributo reso da donne, fanciulli, uomini così diversi, per condizioni sociali, orientamenti politici e ideali e fedi religiose, eppure uniti in uno stesso cordoglio. Accanto al giovane operaio, ancora in tuta, dritto nel saluto proletario del pugno chiuso (ignaro, evidentemente, di quanto quel gesto fosse sgradito a Togliatti, che amava piuttosto la mano tesa, da amico ad amico), vi erano le donne e gli uomini che esprimevano, malgrado le vane scomuniche, il loro sentimento coi gesti naturali della religione cattolica, fino al bacio dato al drappo rosso o al nastro tricolore. E quanti bambini recati dai genitori a dare quel tributo, perché crescessero col ricordo di quel giorno, nel quale anch’essi avevano partecipato alla manifestazione nazionale che concludeva non solo la vita di un uomo, ma un grande periodo della storia nazionale … Davanti alla salma di Togliatti, si era avuto l’incontro, da lui preparato, tra operai ed intellettuali, tra la gente semplice del lavoro e gli uomini della scienza e dell’arte, quell’unità della nazione che era stata lo scopo al quale aveva dedicato la sua vita, perché quella unione è la condizione dell’ascesa e del progresso dell’Italia verso il socialismo. La bara fu sollevata ed uscì alla grande luce del pomeriggio romano, nel contrasto acutissimo tra il silenzio della grande folla, rotto soltanto dai singhiozzi e dalle preghiere, e il giuoco violento dei colori, le rosse bandiere, i tricolori, le bianche camicie degli uomini e le vesti policrome delle donne. C’era anche il nero di un gruppo di suore. Il cielo, man mano che il corteo procedeva lento verso piazza San Giovanni, si tingeva di rosso, ed il verde scuro dei pini si stagliava netto. Roma si era tutta raccolta per salutare Togliatti. Dicemmo poi che eravamo un milione. Moltiplicata per cento e per mille era la stessa folla che era passata davanti alla salma di Togliatti, nell’atrio del palazzo di via delle Botteghe oscure, la stessa per comportamento e gesti naturali, con una più marcata affermazione regionale, da parte degli uomini e delle donne venuti dal Nord o dal Sud, dei modi con cui da sempre si esprime in ogni famiglia il dolore per la perdita di un padre. E questo era il sentimento che accomunava tutti, la coscienza di essere diventati orfani, di avere perso una guida ed una protezione. 

Una sensazione che il popolo della sinistra riprova, fortemente, nel giugno 1984, esattamente venti anni più tardi, al funerale di Enrico Berlinguer. “Quella notte Roma sembrava una città sospesa - scrive oggi Pietro Spataro su Strisciarossa - e l’autostrada un filo nero lanciato verso il mare. Al volante di una Centoventisette bianca inseguivo l’alba di un giorno che sarebbe rimasto per sempre nella memoria. Come il ghiaccio nei ricordi di Aureliano Buendia in Cent’anni di solitudine di Marquez. Era il 13 giugno del 1984”. Da Gorbaciov, Zhao Ziyang, Marchais, Carrillo, Arafat, dai comunisti delle Filippine e di Israele, della Jugoslavia e della Corea, Berlinguer riceve l’attestato di leader internazionale. Pertini è seduto tra gli uomini al sole. Dopo l’ultimo discorso, scende, va verso la bara, la tocca con le mani, l’accarezza.

“En-ri-co; En-ri-co”. Il grido si alza potente prima ancora che il lungo corteo di auto sbuchi dal Campidoglio. Chiuso in una cassa di legno chiaro, coperta dal drappo rosso e dal tricolore, Berlinguer è tornato a casa, in questa dolce sera romana, accolto dai suoi compagni che lo applaudono come per abbracciarlo e, a squarciagola, scandiscono il suo nome”, scriveva la Repubblica. “Se asciughiamo una lacrima - dirà Pajetta - è per veder chiaro. Ricordate le sue ultime parole: lavorate. Compagno Berlinguer sappiamo come vuoi essere ricordato, ce lo hai gridato a Padova, con un ultimo sforzo”.

“Lavorate sodo - aveva similmente detto nel suo ultimo discorso a Lecco Giuseppe Di Vittorio - e soprattutto lottate insieme (…) Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire”.

Lavoriamo insieme, dunque, con la consapevolezza di servire una causa grande, una causa giusta. Con la consapevolezza di appartenere ad una grande famiglia della quale andiamo immensamente fieri.