Nell’aula del Tribunale romano di Rebibbia sfilano in questi giorni i testi del processo al Plan Condor, nell’ambito del quale Cgil, Cisl e Uil si sono dichiarate a sostegno delle parti civili. Nel corso del 2015, saranno chiamati in Italia oltre 100 testimoni chiave dal Cile, dalla Bolivia, dall’Argentina e dall’Uruguay: sindacalisti, intellettuali, politici, familiari delle vittime della più grande operazione internazionale di repressione politica compiuta negli anni settanta e ottanta in America Latina.

I racconti dei familiari riaprono ferite e traumi rimasti per anni nel fondo della memoria, schiacciati e nascosti dalla nuova vita faticosamente costruita in esilio, dalle nuove relazioni, dal quotidiano che ti inchioda a sbarcare il lunario, dalla scomparsa dei compagni e delle compagne di un tempo.

Madri, nonni, parenti che hanno visto e che hanno raccontato ciò che accadde quasi 40 anni fa, lasciando documenti, testimonianze, nomi, lettere, tracce della persona scomparsa, diventato l'ennesimo caso di desaparecido, consegnando a chi resta il dovere di ripetere la domanda che vale una vita: dov'è finito il proprio caro, dove sono i suoi resti. Desaparecido da allora a oggi, senza risposta.

Nel Tribunale di Rebibbia la bobina del tempo si riavvolge, la ferita si riapre, il racconto è interrotto dall'emozione, le parole portano la mente oltre oceano, terre lasciate in fretta e furia, per sfuggire all'arresto, pensando di rivedere presto chi era già stato preso o chi tardava a uscire dal carcere. I luoghi sono Buenos Aires, Montevideo, Temuco, Santiago del Cile, Asunción, i rumori sono quelli delle celle fredde e umide degli scantinati, le voci sono le urla delle vittime della tortura e dei loro aguzzini. Rebibbia è lontana, nel tempo e nello spazio.

Le prime testimonianze sono di Cristina e di Maria Paz, la prima moglie di Bernardo Arnone, giovane militante uruguayano, la seconda figlia di Omar Venturelli, militante cileno. Bernardo e Cristina, poco più che ventenni erano attivi nel movimento studentesco di Montevideo. Si rifugiarono a Buenos Aires, per sfuggire alla repressione dei militari del loro paese e continuare la lotta politica dall’Argentina

Bernardo scomparve il 1° ottobre 1976 in una retata preparata e coordinata dai servizi dei due paesi, per decapitare l’organizzazione del gruppo politico uruguaiano in cui militava (Partido por la Victoria del Pueblo). Cristina, che condivideva la militanza politica con Bernardo, riuscì a fuggire, via nave, rifugiandosi prima in Svezia e quindi in Italia, dove tutt’ora vive.

Omar Venturelli, era un sacerdote cileno, proveniente da una delle famiglie italiane che tra il 1903 e il 1905 partirono dall'Appennino modenese per cercar fortuna nelle Americhe, approdando in Cile con un contratto di colonizzazione dei territori vergini nel Sud del paese, ancora popolati dai Mapuche. Poco dopo aver terminato il seminario a Santiago, per il suo impegno a favore delle lotte sociali degli indios contro i latifondisti, fu sospeso a divinis dalla chiesa cilena.

Omar si mise allora a insegnare filosofia all'Università Cattolica di Temuco, continuando il suo impegno e la sua militanza politica nel movimento Cristiani per il socialismo e nel Mir (Movimiento de Izquierda Revolucionaria). Subito dopo il colpo di stato del'11 settembre 1973, il suo nome fu tra quelli che avrebbero dovuto presentarsi immediatamente in commissariato. Fu il padre a convincerlo ad andare in caserma, sicuro che si sarebbe trattato di una semplice formalità. Da quel momento, passò da una caserma all'altra, subendo torture varie, per poi essere trasferito, la sera del 3 ottobre 1973, alla base dell'aeronautica di Maquehue (Temuco), dove – a seguito delle torture subite – morì il 4 ottobre.

Maria Paz, all’epoca dei fatti di appena due anni, è riuscita a ricostruire quanto è accaduto a suo padre attraverso i racconti della madre (Fresia, insegnante, attivista e militante politica come il marito, rifugiatasi nell'ambasciata italiana di Santiago del Cile, esiliatasi in seguito in Italia e oggi deceduta), del nonno, della zia e di amici e conoscenti, mostrando l'ultimo messaggio di Omar, una lettera indirizzata a lei, piena di raccomandazioni e con l'impegno di rivedersi, “forse, chissà”.

In queste prime storie, vere, crude, toccanti, è apparso chiaro il piano repressivo e violento dei golpisti e delle dittature militari, che decisero di farla finita con l'opposizione politica, superando di gran lunga l'immaginazione di quelle generazioni di giovani che si ribellarono ai colpi di stato e alla perdita delle libertà, delle loro famiglie e in generale dell'insieme delle società latinoamericane, che non avevano idea di che cosa stesse bollendo in pentola.

L'azione – l’eliminazione fisica degli oppositori politici – è stata mirata, programmata, pianificata in tutti i suoi dettagli e aspetti organizzativi, logistici e materiali, grazie all'ampia copertura degli apparati statali e con l'attenta regia e supervisione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America. Era la messa in pratica della lotta al pericolo comunista, alla nazionalizzazione delle imprese estrattive, alle riforme agrarie, all'esperienza cubana.

Era la difesa degli interessi geo-politici ed economici in quello che veniva considerato dagli Usa il proprio “giardino di casa”. Il Piano Condor non fu null'altro che la regionalizzazione della strategia repressiva e di ripristino dell'ordine secondo il volere del Dipartimento di Stato, trasmesso e accettato dai militari eversivi in Cile, Uruguay, Argentina, Paraguay, Bolivia e Brasile.

Le testimonianze ascoltate confermano che quelle società non erano preparate a tanta crudeltà e violenza. Che le stesse famiglie, padri e madri dei giovani sequestrati, hanno tardato anni prima di rendersi conto di quanto stesse succedendo e cosa era accaduto ai propri cari. Nessuno poteva immaginare che vi fossero i centri di detenzione clandestina e di tortura, i voli della morte, le fosse comuni, i neonati sequestrati, fatti sparire e ricomparsi sotto nuove identità. Nessuno poteva credere che le istituzioni, la chiesa (non tutta, ma la chiesa ufficiale, quella delle alte gerarchie, ha preso la parte dei golpisti o ha taciuto), le forze di polizia, l'esercito, l'aeronautica, la marina, tutti quanti potessero nascondere la verità.

Le vittime hanno nomi e cognomi, il lutto e la domanda di giustizia, oltre che dei familiari, è anche un'esigenza della società intera, di quei paesi, di quelle comunità, e di noi tutti, perché il crimine di cui stiamo parlando è contro l'umanità intera: è la soppressione della vita per eliminare idee politiche, libertà d'espressione, diritto di associarsi.

Per questo, il processo apertosi a Rebibbia per i desaparecidos di origine italiana è senza alcun dubbio una grande opportunità per avvicinare il momento della verità. Ripartendo dal caso delle 22 vittime del processo italiano, la speranza è che si possa arrivare alla verità e alla giustizia per tutti i desaparecidos.  

Area politiche europee e internazionali Cgil