8.223.454 casi confermati, 444.813 morti accertate, 216 Paesi e territori colpiti. Queste le più recenti cifre ufficiali riportate dal sito web dell’Organizzazione mondiale della sanità (risalenti al 18 giugno scorso) sulla diffusione e sull’impatto del virus Covid-19 nel mondo. Una pandemia, ovvero una “epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti” (Treccani). Definita da molti come l’esperienza più difficile dai tempi della seconda guerra mondiale, la portata della pandemia richiederebbe una risposta globale, coordinata, collettiva.

Le misure adottate hanno invece seguito sin dall’inizio logiche nazionali, laddove non territoriali, spesso non coerenti e disordinate. Mentre nei paesi più industrializzati le più o meno drastiche misure di confinamento e di distanziamento fisico, insieme al blocco temporaneo delle attività, hanno fatto registrare una sostanziale diminuzione nella diffusione e nell’impatto del virus, in altre zone del mondo ciò non è avvenuto. Una parte della popolazione mondiale è isolata, povera, non dispone dei mezzi basilari minimi per potersi difendere dal virus, non ha accesso all’acqua oppure non può restare a casa, poiché la casa non la possiede. In altre aree poi, l’approccio politico irresponsabilmente autoritario o superficiale s’intreccia con situazioni socio-economiche e demografiche già molto complesse, causando una crescita incontrollata dei contagi, come in India, Brasile, Stati Uniti.

Questa emergenza sanitaria, divenuta ormai economica e sociale, determina ancora una volta una netta demarcazione tra ricchi e poveri, tra chi può difendersi e chi invece non potrà farlo, in un quadro di generale disuguaglianza strutturale preesistente, che affonda le proprie radici nelle errate scelte economiche, politiche e sociali perpetrate nel tempo. Non c’è alcun dubbio che la crisi che seguirà la lenta uscita dalla fase di emergenza avrà dimensioni globali senza precedenti ed è poco probabile che sarà affrontata in modo concertato a livello mondiale, considerato il modo in cui le organizzazioni internazionali stanno gestendo risorse ed energie in questa circostanza.

Il sindacato, in tutto il mondo, sta giocando un ruolo importante in quest’emergenza, sollecitando e ottenendo – in diversi casi - misure per la tutela della salute, del reddito, dell’occupazione per i lavoratori e per i cittadini. In molte zone del mondo, tuttavia, queste richieste non sono state accolte e molti rappresentanti dei lavoratori sono stati licenziati o addirittura incriminati per aver denunciato violazioni dei diritti alla salute e sicurezza o dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro (Bielorussia, India, Malesia, Cambogia, Perù e altri). Va sottolineata, in questo frangente, anche l’azione della cooperazione allo sviluppo, per la qualità e l’ampiezza delle relazioni transnazionali storicamente costruite, che ha attivato lo scambio di esperienze, competenze, aiuti e sostegno tra Paesi, soprattutto in ambito sanitario.

Proprio in questo settore si sono rivelate corrette le rivendicazioni del sindacato italiano per un efficiente sistema sanitario pubblico, accessibile a tutti. Abbiamo potuto toccare con mano quale sia il ruolo determinante svolto dalle strutture sanitarie pubbliche, territoriali e nazionali, in quest’emergenza. Una parte cruciale nell’accompagnare l’attività del settore sanitario può e deve essere svolta dalla tecnologia, anche attraverso il corretto uso dei dati. Abbiamo assistito alla moltiplicazione infinita di sondaggi, previsioni, statistiche che processavano informazioni raccolte alle diverse latitudini, definite a vario titolo come “numeri della pandemia”.

Già nel mese di febbraio in Corea del Sud era possibile scaricare un’applicazione che consentiva di individuare persone con positività al Covid-19 in un raggio di 100 metri, incrociando dati della geolocalizzazione del telefono cellulare con altri dati personali registrati nelle banche dati istituzionali. Questa soluzione, utilizzata in massa, ha contribuito positivamente alla gestione e al contenimento della diffusione del virus, ma ha completamente ignorato molte questioni legate alla riservatezza. Altre soluzioni, basate sulla tecnologia bluetooth, sembrerebbero tenere maggiormente in considerazione l’anonimizzazione del tracciamento; rimangono tuttavia aperti molti interrogativi sulla loro efficacia rispetto alla volontarietà dell’utilizzo dell’applicazione, alla sua diffusione e all’automatizzazione delle eventuali segnalazioni.

Il Massachussets institute of technology di Boston ha elaborato un database in cui sono stati individuati a oggi 25 sistemi di tracciamento automatizzato dei contatti nel mondo (tab. 1). Per ogni sistema sono considerate cinque caratteristiche relative ai dati, nell’ordine: volontarietà, limitazione rispetto agli scopi dichiarati, conservazione e distruzione dei dati, tipologia di dati raccolti e requisiti di trasparenza (Covid tracing tracker).

In ogni caso, qualsiasi soluzione non può essere affidata soltanto all’applicazione. È sicuramente giusto considerare le famose “tre T”: testare, tracciare, trattare. Questo però implica di poter disporre di una struttura organizzativa e tecnologica in dialogo costante e diretto con il sistema sanitario e sociale, che possa anche rendersi compatibile con i sistemi adottati in altre realtà nazionali, la cui responsabilità sia affidata allo Stato, a garanzia della tutela della riservatezza e dell’utilizzo corretto delle informazioni personali.

Monica Ceremigna è responsabile Progetti e formazione sindacale europea e internazionale