Quattro quesiti a beneficio di tutti i cittadini. Quattro domande per ridurre la precarietà e garantire più sicurezza negli appalti. Quattro proposte per smontare alcune delle leggi che hanno portato a un mondo del lavoro selvaggio, pieno di precarietà e troppo sbilanciato a favore delle imprese. Sono state presentate dalla Cgil e pubblicate in Gazzetta ufficiale: referendum per i quali il sindacato di Corso Italia si appresta a raccogliere entro l’estate le 500mila firme necessarie per andare poi al voto nella prossima primavera.

L’obiettivo? Uno solo: cambiare le norme che hanno impoverito il lavoro e hanno reso i lavoratori meno protetti e più vulnerabili, con meno diritti e con più possibilità di essere licenziati. Insieme all’iniziativa referendaria la Cgil porterà avanti anche proposte di legge e un contenzioso giudiziario mirato, azioni combinate per arginare le numerose riforme pensate e approvate apposta per togliere tutele e protezioni.

Domande dirette, temi difficili

Le domande sono dirette: “Volete voi l’abrogazione di…?”. E poi il dettaglio delle norme che si vogliono cancellare. Il referendum proposto dalla Cgil è di tipo abrogativo, come prevede la nostra Costituzione all’articolo 75, cioè chiede di eliminare leggi o parti di leggi, ed è uno strumento di esercizio della sovranità popolare: i cittadini esprimono direttamente le loro convinzioni al momento del voto, dichiarando semplicemente “sì” oppure “no” all’abrogazione.

Questo però non significa che i quesiti siano di facile comprensione, anche perché i temi che riguardano il lavoro sono ostici per tutti, chiari e accessibili solo ai giuristi specializzati. Vediamoli.

1. Cancellare il Jobs Act

“Il primo quesito è il più semplice di tutti – afferma Lorenzo Fassina, responsabile dell’ufficio giuridico e vertenze della Cgil –, perché mira a cancellare l’intero decreto legislativo 23 del 2015, il famoso Jobs Act, contratto a tutele crescenti. Stiamo parlando della legge che ha di fatto reso inapplicabile nel 90 per cento dei casi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”.

Tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 da un’azienda con più di 15 dipendenti possono essere licenziati in maniera illegittima, quindi anche se non c’è giusta causa o giustificato motivo soggettivo o oggettivo (ristrutturazione dell’impresa, crisi aziendale, soppressione del posto, ecc.). Il decreto che si vuole abrogare ha escluso la possibilità per il lavoratore di essere reintegrato: ha diritto solo a un indennizzo che viene stabilito esclusivamente in base agli anni di servizio nell’azienda (elemento peraltro dichiarato incostituzionale dalla Consulta).

A cosa ha portato il cosiddetto contratto a tutele crescenti? Ha precarizzato il lavoro e tolto tutele al lavoratore: chiunque assunto dopo il 2015 (quindi per lo più i giovani) può essere licenziato in qualsiasi momento e senza motivo. Quindi è sotto ricatto.

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2. Cancellare il tetto all’indennizzo

Con il secondo quesito siamo nell’ambito delle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Piccole e medie. Se un lavoratore viene licenziato, va dal giudice e dimostra che il suo è stato un licenziamento illegittimo, la legge (604 del 1966) prevede la riassunzione o l’indennizzo. Ebbene, il referendum della Cgil chiede di abrogare le norma che mette un tetto massimo all’indennizzo che è di 6 mensilità, maggiorabile dal giudice fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore a 10 anni, e fino a 14 per quello con più di vent'anni.

“Vogliamo fare in modo che il giudice abbia la possibilità di definire più liberamente l’indennizzo che l’azienda deve corrispondere al lavoratore licenziato illegittimamente, in relazione a diversi fattori – spiega Fassina –: la capacità economica dell’impresa, per esempio, la situazione familiare del lavoratore, l’età, i suoi carichi, e così via”.

Qual è la finalità? Alzare il tetto massimo può essere un deterrente ai licenziamenti illegittimi. Se il datore di lavoro sa che con il licenziamento illegittimo rischia di dover pagare un indennizzo di una certa consistenza, ci pensa su due volte prima di avere un atteggiamento spregiudicato nei confronti del lavoratore. Anche in questo caso, si toglie un’arma all’azienda e si tutelano di più le persone.

3. Cancellare l’abuso del contratto a termine

Il terzo quesito riguarda il contratto a termine e vuole intervenire sulle norme che ne hanno liberalizzato l’uso da parte delle aziende, fino al ricorso dilagante che se ne fa: basti dire che secondo l’Istat sono 3 milioni gli occupati a termine in Italia e sono impiegati in tutti i settori, nel privato come nel pubblico.

Per definizione un’azienda dovrebbe stipulare contratti a termine perché ha esigenze temporanee da soddisfare: sostituzioni maternità, picchi produttivi, stagionalità e così via. Oggi invece le imprese attivano questi contratti senza alcuna ragione reale e senza alcun limite perché la legge glielo consente. Prendono e lasciano a casa i lavoratori a loro piacimento.

“Con il referendum vogliamo abrogare le norma che consente di stipulare contratti a temine anche senza alcun motivo, che in gergo tecnico si chiama causale giustificativa, mettendo un tetto di 24 mesi ai rinnovi e alle proroghe – aggiunge il giurista della Cgil –. Chiediamo quindi di cancellare l’articolo 19 del decreto legislativo 81/2015, cosa che porterà a eliminare anche un articolo del decreto Lavoro varato lo scorso anno dal governo Meloni. A dispetto di quanto prevede anche una direttiva europea, il contratto a termine è diventato una specie di Far West che ha creato solo altra precarietà”.

4. Cancellare la deresponsabilizzazione delle aziende

Per il quarto quesito siamo nel campo degli appalti e in particolare della sicurezza negli appalti. Oggi se un’azienda dà in appalto un’attività a un’altra e questa a un’altra ancora, i committenti non sono responsabili in solido in caso di infortunio o di malattia professionale del lavoratore. Questo vuol dire che il lavoratore non può chiedere nessun risarcimento del danno alle imprese committenti. Il quesito vuole cancellare la norma che esclude questa responsabilità.

“Molto spesso accade che i committenti scelgano aziende in appalto e subappalto senza tenere conto della loro solidità o della loro serietà: con l’esternalizzazione si vogliono abbattere i costi risparmiando sulla sicurezza o applicando contratti irregolari – conclude Lorenzo Fassina –. Questo ha portato a una crescita degli infortuni sul lavoro, specie in situazioni di appalto e subappalto. Abrogando l’articolo 26 del decreto legislativo 81/2008, se l’appaltatore o il subappaltatore non sono in grado di risarcire, il committente sarà chiamato a risponderne”.

L’effetto della cancellazione sarebbe quello di rafforzare e ampliare la sicurezza sul lavoro e di spingere i committenti a selezionare appaltatori adeguati.