La storia della Parmalat, quella bella, sa di latte e terra della Bassa, sa di coraggio, di rabbia, ha il profumo dei valori antichi, di chi ha sempre avuto a cuore il lavoro, gli ha dato il valore che sempre dovrebbe avere il lavoro. Ha l’accento caldo e avvolgente delle persone nate in questi luoghi, quella R arrotata un po’ francese che gli ha lasciato in dote la famiglia Bonaparte, insieme a coraggio e intraprendenza da vendere.

Questa storia ha la forza di chi non teme di sporcarsi le mani ed è cresciuto a crudo e grana. Ha dalla sua parte l’ottimismo della ragione e il successo della volontà, quel testardo pragmatismo emiliano un po’ contadino e un po’ montanaro, che se si mettono in testa una cosa non li scalfisci. E ha la bellezza di questi orizzonti pieni di arte e di albe di nebbia e di terra grassa e fertile.

L’orgoglio padano, non quello di plastica avvolto nelle bandiere verdi del carroccio e venduto un tanto al chilo come un gadget, sfruttato e vilipeso a fini elettorali, no. L’orgoglio padano quello vero, costruito sull’emancipazione degli ultimi, incarnato nelle lotte di classe che hanno ispirato, emergendo dal loro dna, anche il pensiero e le azioni di questo manipolo di eroi della Parmalat.

Non è tanto la storia del crac finanziario, della speculazione, dell’avidità o, almeno, non è solo quella. Quella su cui si concentrò il circo mediatico alla fine di quel 2003. Quella è morta lì, facendo purtroppo anche tante vittime innocenti.

Piuttosto è la storia di un salvataggio compiuto dai lavoratori per i lavoratori, forse persino da un’intera comunità che sapeva, anche se i giornali quella parte la raccontarono poco, troppo poco, sapeva qual era la vera storia che si stava compiendo. E questa non è finita, continua a vivere.

Anzi, è proprio la storia giusta per imparare una volta di più “che mentre la finanza può distruggere il lavoro, i lavoratori e le lavoratrici hanno salvato non solo il proprio posto, ma hanno dato un futuro al territorio”, ci ha detto Maurizio Landini. Ed è di certo la storia giusta per ricordare a tutti che è il lavoro a creare il futuro.

È una storia fatta di tante storie. Come ogni buona storia collettiva. E come tutte le storie ha un antagonista brutto e cattivo, la finanza che distruggerebbe tutto per un dollaro in più, e un protagonista dal volto pulito, il lavoro che disegna sempre una prospettiva.

La storia di Parmalat è la storia di Diego, allora un giovane delegato della Flai Cgil, che una mattina di metà dicembre del 2003, dopo un turno di notte al reparto confezionamento, venne raggiunto dalla telefonata di un collega, di un amico, che più o meno gli disse: “hai saputo? La Parmalat è fallita, la liquidità che diceva di avere non c’è, tutto falso, vieni qui che occupiamo la fabbrica”.

La notizia era ormai di dominio pubblico, il fondo di quattro miliardi di euro alla Bank of America non esisteva. Le casse erano vuote. E allora la storia della Parmalat è la storia di Diego e di un manipolo di operai e di sindacalisti come lui, che ebbero la forza e il coraggio e la lucidità quasi folle di capire, esattamente mentre questo tsunami investiva le loro semplici vite fatte di certezze come il posto fisso nella grande multinazionale del latte, che gli stabilimenti non dovevano fermarsi, per nessun motivo, anche a costo di autofinanziare la produzione, perché scomparire dal mercato e dagli scaffali mentre un mare di fango travolgeva la reputazione di quel marchio avrebbe significato distruggere quella realtà per sempre.

È per celebrare tutto questo che Flai, Fai e Uila di Parma, le categorie dell’agroindustria di Cgil Cisl e Uil, hanno deciso di organizzare, lo scorso 4 dicembre, una iniziativa che ricordasse, esattamente vent’anni dopo, quei giorni e desse la parola ai protagonisti di quel salvataggio, i lavoratori. Perché non bisogna mai dimenticare certe lezioni e perché c’è tanto in quella storia che sarebbe utile sapere e tenere a mente anche oggi.

Proviamo a metterci il naso in quel dicembre 2003. Forse il cielo era grigio come oggi, vent’anni dopo. Forse l’aria finissima congelava la gola a ogni respiro e martellava sulle tempie. E il nevischio iniziò a cadere leggero, sciogliendosi appena toccava il terreno, proprio come le prospettive di vita di quegli operai. Tutto finito. il giorno prima il posto fisso nella realtà industriale che aveva dato lustro e orgoglio a una città intera, facendo fare a quelle 5 lettere, P-A-R-M-A, il giro del mondo, creando un connubio indissolubile con il latte, fondendo le due entità nel leggendario marchio Parmalat. Usando la squadra di calcio, fino ad allora una piccola realtà locale, per entrare nella leggenda, trasformando uno stadio di provincia nel tempio di campioni indimenticabili e nel teatro di tanti successi sportivi.

Poi arrivò il crac. Sembrava l’inizio della fine e invece fu un nuovo inizio. Difficile, impensabile, forgiato nell’intraprendenza di pochi lavoratori che riuscirono a trascinare un’intera comunità, comprese le istituzioni, dal sindaco al presidente della regione fino al governo. Uno sforzo collettivo enorme accompagnato dall’orgoglio di una città che nel momento peggiore scelse di sostenere questa piccola grande lotta di resistenza. E la storia di un manipolo di operai divenne la storia di migliaia e migliaia di famiglie in tutto il Paese che nel carrello della spesa iniziarono a metterci i prodotti Parmalat per solidarietà con quella lotta.

E non fu una passeggiata. Se prima i fornitori alla parola Parmalat si toglievano il cappello coscienti della fortuna che aveva bussato alla loro porta, ora era tutto un “vabbè, ma chi paga? E come? E quando?”. Telefonate estenuanti per convincerli della bontà del progetto. In quella lunga traversata nel deserto i delegati si trovarono persino a gestire i rapporti con la stampa, ad accompagnare i cameraman sul lato giusto della fabbrica, dove casse di bottiglie di latte venivano caricate senza sosta sui camion, per difendere l’immagine vincente dell’azienda. E i lavoratori furono talmente bravi che le vendite aumentarono, persino.

Se ci pensate è un paradosso. Che mentre nel 2008 il turbocapitalismo uccideva le economie dell’intero Occidente a colpi di speculazione e i giganti con i piedi d’argilla, gli hedge fund, le banche, le borse crollavano una dopo l’altra sotto il peso della loro stessa carta straccia prodotta dai mutui subprime e dalla finanziarizzazione del nulla, trascinando nel baratro milioni di posti di lavoro, produzioni, fabbriche e la stabilità di interi paesi, la Parmalat, uscita viva per miracolo dal crac di cinque anni prima, volava, il destino tenuto saldamente in quelle mani sporche di latte e burro, continuando a vendere i suoi prodotti fino all’accordo con il gigante Lactalis del 2011 che quel salvataggio lo blindò per sempre con un investimento complessivo, in 10 anni, di oltre 200 milioni di euro, più della metà a Collecchio.

Valeva la pena celebrarla questa vittoria del lavoro. E celebrarla con quel titolo, Il miracolo del latte. Un miracolo molto terreno, nessun trucco, nessun inganno, nessun mistero, solo fede coraggio orgoglio e intelligenza, per questa classe operaia dallo sguardo fiero e le mani ruvide che vent’anni fa salvò, lottando, il suo pezzo di paradiso.

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