La notizia era attesa, ma è comunque un’ulteriore iniezione di incertezza per il futuro di 400 lavoratori. Martedì 9 febbraio è partita la procedura per il licenziamento collettivo dei dipendenti della ex Embraco di Riva di Chieri (Torino), che diventerà effettiva tra 75 giorni, in anticipo rispetto alla scadenza della cassa integrazione in vigore fino a luglio. La vicenda dell’ex azienda metalmeccanica va avanti da quasi quattro anni, e ogni volta che si avvicina la soluzione sorge un nuovo problema. Nel settembre scorso sembrava fatta: l’ingresso dello Stato, la fusione con la bellunese Acc e il conseguente varo del progetto Italcomp per la nascita del polo italiano dei compressori per frigoriferi. Eppure, a distanza di cinque mesi, è ancora tutto fermo.

“Noi ci siamo subito dichiarati favorevoli a Italcomp, perché finalmente si metteva in atto una vera politica industriale”, spiega la segretaria nazionale della Fiom Cgil Barbara Tibaldi: “In Italia il settore dell’elettrodomestico è uno dei comparti produttivi più importanti, dove abbiamo acquisito un bagaglio di competenze unico, ma è stato letteralmente svenduto alle multinazionali”. Con il nuovo progetto si compie un’operazione virtuosa, si attiva una società a maggioranza pubblica “per salvaguardare un settore strategico e valorizzare le professionalità dei lavoratori. Ma quanto sta accadendo ora, sia a Torino sia a Belluno, è del tutto surreale”.

Fermiamoci qui e facciamo un passo indietro, ricostruendo anzitutto le vicissitudini della Embraco. Lo stabilimento piemontese, storico impianto della Fiat fin dall’immediato dopoguerra, negli anni Ottanta viene ceduto alla statunitense Whirlpool, che nel decennio seguente lo passa alla sua controllata brasiliana Embraco. Nel febbraio 2018 la multinazionale annuncia il trasferimento della produzione in Slovacchia, chiudendo dunque il sito di Riva di Chieri. Per i lavoratori si apre la cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività, intanto si mette a punto il progetto di reindustrializzazione guidato dall’azienda italo-israeliana Ventures Production, centrato sulla fabbricazione di robot pulitori di pannelli fotovoltaici. Un progetto mai partito, dichiarato poi fallito dal Tribunale di Torino nel luglio scorso. 


Ma la storia dell’ex Embraco, che già fin qui si segnala per superficialità politica e mancanza di indirizzo industriale (nazionale e territoriale), continua in maniera sempre più paradossale. “Nel settembre scorso il governo presenta il progetto Italcomp, finalizzato alla nascita del polo italiano dei compressori per frigoriferi”, spiega il dirigente della Fiom di Torino Ugo Bolognesi: “Durante la pandemia il mercato degli elettrodomestici è molto cresciuto, c’è una forte richiesta di questi prodotti. Sono le stesse multinazionali del settore a chiedere la presenza di una piattaforma europea, visto che ormai oltre il 90 per cento dei compressori vengono fabbricati in Cina, e in tempi di pandemia è preferibile avere una filiera corta”.

La scelta, insomma, sembra giusta. Per realizzarla, dunque, si prospetta la fusione tra la ex Embraco e la Acc di Mel (Belluno), fabbrica storica del territorio veneto (ex Zanussi) con 270 dipendenti. Unico stabilimento europeo attivo nella produzione di motori per la refrigerazione domestica, la Acc viene acquistata nel 2014 dalla cinese Wanbao e da questa abbandonata nel settembre 2018. Nel maggio 2019 il ministero dello Sviluppo economico nomina un commissario straordinario e la produzione riprende. Nel settembre scorso viene appunto presentato il progetto Italcomp, che prevede produzione a Torino e assemblaggio a Belluno: l’investimento complessivo è di 50 milioni di euro entro il 2024, con una forte presenza pubblica (49 per cento del capitale in mano a Invitalia, 21 per cento alle Regioni Piemonte e Veneto).


“Da cinque mesi il progetto è fermo”, spiega Stefano Bona della Fiom Cgil di Belluno: “La Acc ha recuperato tutti i suoi clienti, per il 2021 si è già assicurata commesse per due milioni e mezzo di pezzi, ha visto un aumento del 38 per cento dei volumi produttivi rispetto all’anno precedente, probabilmente si dovrà assumere anche nuovo personale. Eppure, tutto rischia di non realizzarsi”. Il governo ha offerto la garanzia (attraverso la Sace, società della Cassa depositi e prestiti) che copre il 90 per cento dell’investimento iniziale (pari a circa 15 milioni di euro), ma l’azienda “va ora messa finanziariamente in sicurezza: le banche però si stanno sfilando, non concedono prestiti adducendo come motivazione l’attuale mancanza di un governo in carica. È vitale, dunque, che gli istituti di credito rispondano alle sollecitazioni e assicurino la liquidità necessaria a pagare fornitori e lavoratori”.

Eccoci finalmente arrivati a oggi. Italcomp è ancora solo un nome su una slide, e quell’abbozzo di politica industriale che il Governo Conte aveva provato a imbastire potrebbe addirittura fallire. “Le buone idee purtroppo non bastano”, ripete la segretaria nazionale della Fiom Cgil Barbara Tibaldi, rimarcando l’assurdità della situazione: “Il progetto rischia di impantanarsi perché a Belluno, che ha bisogno di liquidità, le banche non si fidano a causa dell’instabilità di governo, mentre a Torino registriamo un atteggiamento irragionevole ed eccessivamente rigido del curatore fallimentare, che ha fatto aprire la procedura di licenziamento”. E allora, che fare? “Ci auguriamo che ritorni velocemente una stabilità di governo – conclude l’esponente sindacale – e che si dia continuità a una delle poche realtà, ma finora forse anche l’unica, in cui la politica ha trovato una risposta industriale alla crisi, e non ha messo cerotti, come fa solitamente, agli errori delle imprese”.

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