Dal 24 agosto i lavoratori dell'industria alimentare sono in stato di agitazione per il contratto nazionale. È l'ultima puntata di una trattativa difficile, che si è svolta prima, durante e dopo il lockdown imposto dal Covid. Il negoziato è stato segnato dalla divisione nel mondo delle imprese: si è concluso con l'accordo del 31 luglio firmato dai sindacati unitari con tre associazioni su tredici. Uno scenario che, se tutte le imprese non applicano il contratto, rischia di ricadere sulla pelle dei lavoratori. Ripercorriamo la vicenda e facciamo il punto con Ivano Gualerzi, segretario nazionale della Flai Cgil.

La trattativa per il rinnovo degli alimentaristi si è aperta a settembre 2019. Com'è andata?

Come sempre abbiamo stabilito una serie di incontri tecnici per entrare nel merito dei temi proposti nella piattaforma. Di solito si fa la discussione e alla fine arriva la parte salariale, qui invece si sono invertiti i termini: siamo partiti dalla richiesta economica prevista dall'impianto del Patto per la fabbrica. La trattativa si è rivelata subito molto complicata, anche su capitoli come formazione, classificazione e lavoro a distanza. Dopo vari incontri, e due riunioni plenarie, il negoziato si è interrotto. Va detto che in quella fase c'erano ancora al tavolo le 13 associazioni datoriali con il coordinamento di Federalimentare. Con la rottura abbiamo proclamato il blocco degli straordinari e della flessibilità, poi è scoppiata la pandemia.

A quel punto cosa avete fatto?

Il settore alimentare è ovviamente considerato essenziale. È rimasto sempre aperto, in certi casi con allungamento degli orari per affrontare lo svuotamento degli scaffali nei supermercati. C'è stata una grande assunzione di responsabilità dei lavoratori. Da parte nostra abbiamo sospeso la mobilitazione: d'altronde in molti comparti ci siamo trovati a discutere i protocolli per la sicurezza, che erano la priorità. Sulla trattativa ci siamo dati appuntamento ad aprile, ma Federalimentare ha sostenuto che le aziende fossero troppo impegnate sulla questione Covid, chiedendo di rivederci più avanti. Una risposta che ci è sembrata non corretta e irrispettosa dello sforzo straordinario dei lavoratori dell'alimentare.

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Così i sindacati hanno scritto alle associazioni e alle aziende, sondando la disponibilità a riaprire la trattativa.

Esatto. Abbiamo ricevuto risposte positive: in particolare alcune associazioni ci hanno convocato e abbiamo firmato il primo accordo per riaprire il negoziato. Si tratta di un'intesa che stabilisce la copertura salariale dalla scadenza del ccnl alla fine del 2020 erogando una prima tranche di circa 21 euro, equivalente a un punto dell'indice Ipca. Non era un accordo ponte, ma una prima parte del rinnovo che a quel punto doveva essere concluso. Abbiamo poi siglato lo stesso testo con altre associazioni, sempre considerando come punto d'arrivo il rinnovo del contratto nazionale.

Mentre tentavate di sbloccare la trattativa, però, c'è stata la spaccatura all'interno delle associazioni.

Proprio così. Ci siamo trovati a negoziare su tre tavoli. Basti pensare che la trattativa si teneva dentro un albergo: c'erano quattro stanze, una del sindacato unitario, le altre tre delle associazioni di impresa che avevano posizioni tutte diverse tra loro. Già è difficile firmare il contratto con una controparte, figuriamoci con tante. In ogni caso abbiamo affrontato la parte normativa, anche alla luce del Covid, e le regole dello smart working, sempre nella continua difficoltà dovuta alla frammentazione aziendale. A un certo punto abbiamo condiviso il 95% della parte normativa con tutti i tavoli: c'erano sfumature diverse, certo, ma la soluzione sembrava a portata di mano.

Come è arrivata la rottura?

Abbiamo provato a trovare la quadra anche sul salario. Sul trattamento economico minimo (84 euro a parametro medio, ndr) abbiamo portato tutti sulla stessa lunghezza. Poi si è parlato di altri temi, come la bilateralità, e infine siamo entrati nel merito delle cifre. La nostra proposta era un aumento medio di 126 euro, le imprese erano ferme a 106 euro ipotizzati a fine febbraio, prima del Covid. Due tavoli, quello di Assocarni e di Federalimentare, non hanno accettato alcuna mediazione. Il terzo tavolo ci ha fatto una proposta, che ha portato alla firma del contratto nazionale il 31 luglio. Abbiamo chiuso con 119 euro di aumento con un solo tavolo, gli altri due hanno abbandonato.

Perché?

Alcune considerazioni li hanno portati a non firmare. Probabilmente sono state decisive le pressioni di Confindustria per non concedere aumenti salariali. Ci tengo però a specificare che noi abbiamo lavorato sempre per tenere tutti e tre i tavoli dentro la trattativa, mai per l'esclusione. E a un certo punto l'esito del negoziato era condiviso praticamente nella sua totalità, ovvero si erano trovati i punti di mediazione necessari per soddisfare le parti. Poi - come detto - alcune imprese non se la sono sentita di dare gli aumenti. Abbiamo quindi sottoscritto il contratto nazionale con tre delle tredici associazioni che ne fanno parte. È importante specificare che non ci sarà un altro contratto né si riaprirà la trattativa.

Adesso che succede?

Stiamo scrivendo alle aziende chiedendo di applicare il contratto del 31 luglio. Arrivano le prime risposte positive: alcune hanno già dato disponibilità alla firma. Noi abbiamo messo in campo iniziative di mobilitazione, come il blocco degli straordinari e della flessibilità per tre settimane, poi convocheremo gli attivi regionali per lanciare la campagna di assemblee. Un passo fondamentale sarà l'approvazione del contratto nel referendum dei lavoratori, sia quelli delle aziende firmatarie che delle altre. Con il loro sì avremo più forza per far approvare il contratto a tutti. Una cosa è certa: staremo col fiato sul collo delle aziende per ottenere la firma.