Lo smart working poteva essere, per molte famiglie, la terra promessa dove conciliare lavoro e affetti, intervenendo sulle carenze del nostro sistema di welfare. A due mesi dall’inizio della pandemia, si è trasformato in una terra di nessuno, popolata da molto working e poco smart. Rispetto al felice presagio di ritmi e spazi a misura di individuo, abbiamo scoperto che agile non deve esserlo il lavoro, ma il lavoratore. Ci siamo trovati a gestire tutto in maniera ancora più frenetica di prima quando, almeno in teoria, il tempo libero e quello del lavoro restavano separati.

Eppure, lavorare da casa era sembrata la soluzione a diversi problemi. La giornata tipo di una famiglia con un bambino di pochi mesi, prima dell’inizio della pandemia, iniziava molto presto, di solito prima dell’alba. Per una coppia che vive lontana dai nonni e con un bambino che ancora non va al nido, le selezioni per la baby sitter ideale non sono proprio come aprire la porta alla tata “praticamente perfetta”. Senza trascurare l’aspetto economico, che potrebbe essere tra le motivazioni che inducono le donne a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio (secondo l’Istat il 27%). Se i tre quarti di uno stipendio, già di fascia medio-bassa, fanno quello della baby sitter, non rientrare subito a lavoro potrebbe diventare un’opzione. A questa se ne affianca un’altra: più del 40% delle madri con almeno un figlio preferisce il part-time, pur di continuare a mantenere un’occupazione.

Nel nostro Paese, l’astensione dal lavoro obbligatoria per maternità, limitata a un periodo di cinque mesi, ha subito un’unica modifica negli ultimi anni: l’introduzione del congedo flessibile. In apparenza, la spinta in avanti che permette alle donne di decidere in autonomia se vogliono fare il travaglio direttamente dall’ufficio alla sala parto. In realtà un grande passo indietro, che permette di usufruire del congedo a disposizione come un mutuo da estinguere: a rate, un po’ prima e un po’ dopo la nascita di un figlio, oppure in un’unica soluzione. Certo, un’alternativa c’è: il congedo parentale, anche chiamato maternità facoltativa (l’uso dell’aggettivo la dice lunga) pagato al 30% dello stipendio pieno. Su una cifra tonda di mille euro, significherebbe prenderne 300.

Se una neomamma, dunque, decide di tornare a lavoro alla fine del congedo obbligatorio, per ragioni di natura economica e professionale, ma non può permettersi la tata, di fronte a sé ha un’unica soluzione: una prozia o dei cugini di secondo grado che si rendano disponibili per badare al nipotino o alla nipotina. Il punto è che abitano dall’altra parte della città. Ricapitolando: sveglia prima dell’alba, due ore di viaggio nel traffico per affidare il bambino agli zii, un’ora e mezza per raggiungere il posto di lavoro, più altri cinquanta minuti alla ricerca del parcheggio. Il bilancio finale è di una serie di appuntamenti saltati, una riunione al fotofinish, un pranzo davanti alla scrivania e di nuovo in macchina per attraversare la città.

Di fronte a uno scenario così avvilente, lo smart working sembrava per molte mamme una buona soluzione per tenere tutto insieme: ricominciare a lavorare senza lasciare un neonato. Si è rivelato, invece, un modo per fare tutto male. Secondo la ricerca #Iolavorodacasa, durante l’emergenza una donna su tre sta lavorando più di prima, e fatica a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Secondo la stessa indagine, oltre il 60% delle donne ha espresso sentimenti “positivi e di rinnovamento”, mentre il restante 40% vive questo periodo con “ansia, rabbia e confusione”.

Questi dati rivelano l’ambivalenza di atteggiamenti nei confronti dello smart working, che potrebbe essere una grande risorsa, ma è un meccanismo che necessità di essere regolamentato e che va contrattato, come messo in evidenza dalla Cgil. Durante la pandemia, molte famiglie si sono trovate alle prese con il lavoro da casa e la scuola a distanza, tutto in contemporanea. Nella fase uno, il congedo parentale di 15 giorni (retribuito al 50%) e il bonus baby sitting sono state le due principali misure previste per le famiglie, ma il carico di lavoro domestico è aumentato. Il rischio di contagio ha, infatti, significato per molti la rinuncia al supporto delle lavoratrici domestiche che, a loro volta, sono rimaste disoccupate. Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto di includere i lavoratori domestici tra i destinatari dell’ammortizzatore sociale in deroga e prevedere misure ad hoc per le famiglie, con un bisogno crescente di cura e assistenza domestica.

Non è ancora chiaro cosa succederà nel prossimo futuro, soprattutto alla luce della grande incognita che riguarda la riapertura, in autunno, di scuole e asili nido. Per il momento, la fase due si è aperta con un dato: 3,3 milioni di uomini sono tornati a lavoro (il 74,8% del totale), mentre le donne sono 1,1 milioni (il 25,2%). Lo rivela una ricerca della Fondazione studi consulenti del lavoro, “Non chiamatelo smart working. Il lavoro agile ai tempi del Coronavirus”, realizzata a partire dai microdati Istat relativi alle Forze di Lavoro. Sempre da un’indagine dell’Istituto Nazionale di Statistica, “Aspetti della vita quotidiana”, emerge che le donne nella fascia 25-44 anni, in coppia e con figli, occupate come il loro partner, dedicano quotidianamente al lavoro familiare il 21,6% del proprio tempo. Gli uomini il 9,1%. Restare a casa, per via delle misure di contenimento della pandemia, potrebbe invece aver favorito una maggiore condivisione dei compiti. La sfida è mettere in pratica, anche nelle fasi successive, la lezione imparata nella fase uno.