Niente cortei, niente piazze piene di canti e bandiere, niente Inno dei lavoratori a riecheggiare per le strade. Un Primo maggio diverso quello di questo 2020 solcato dal Coronavirus. Una Festa dei lavoratori che potranno celebrare tra le mura domestiche anche cassiere, magazzinieri, commessi e commesse della grande distribuzione.  Non era scontato. È il frutto dell’impegno decennale del sindacato nell’affermare che “la Festa non si vende”.

Arriviamo a questa celebrazione dopo due mesi di tutto fermo, tranne sanità e filiera alimentare, abbiamo riscoperto il valore del servizio pubblico e abbiamo condannato tutti i tagli che in questi ultimi dieci anni hanno indebolito il Sistema sanitario nazionale, poco ragionando sul fatto che quei tagli fossero funzionali alla attuazione dell’idea che il pubblico dovesse restringe il proprio perimetro perché privato è meglio. E in queste settimane abbiamo cambiato, forse inconsapevolmente, le nostre abitudini di consumatori. Certo è stato facile, anzi quasi obbligato, liberi da altri impegni l’unica attività consentita: fare la spesa. Ed allora non più a sera tardi o sabato e domenica ma la coda ai supermercati in giorni e orari infrasettimanali.

In fondo è la stessa ideologia che ha tagliato posti letto e ridotto medici e infermieri quella che nel 2011 portò il governo Monti ad approvare una norma che liberalizzava totalmente gli orari di apertura dei negozi: consumare individualmente il più possibile in tutti i giorni dell’anno, domeniche e festivi compresi. Tutto sacrificato sull’altare del consumo privato e individuale: affetti, riposi, credi religiosi, diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

Da allora la Filcams ha lanciato una campagna “La Festa non si vende” per sostenere una sostanziale modifica del decreto “Salva Italia” reintroducendo limitazioni alle aperture degli esercizi commerciali: un orario massimo di 13 ore; escludendo la possibilità di aprire nelle 12 festività nazionali e la domenica con deroghe regionali fino a 4 aperture festive e la facoltà di individuare le aperture domenicali da un minimo di otto ad un massimo di 26 annue dopo aver ascoltato le parti; da tali limitazioni dovrebbero essere esclusi i negozi collocati nei centri storici e i negozi di vicinato. Una campagna costata molto, anche in termini economici agli addetti dei supermercati e centri commerciali che più volte hanno scioperato proprio di domenica e festivi per affermare il diritto al riposo. Per altro i fatturati di questi 10 anni di liberalizzazione totali stanno lì a dimostrare che il sempre aperto non porta maggior introito ma semplicemente una spalmatura degli acquisti – che rimangono stabili – su più giorni e più ore.

 

E all’epoca del Coronavirus? Ci hanno pensato Governo e Regioni – per paura del contagio – a ridurre gli orari di apertura dei negozi aperti per l’approvvigionamento alimentare. “I sindacati, la Filcams in testa, afferma Alessio Di Labio, segretario nazionale della categoria della Cgil che rappresenta i lavoratori e le lavoratrici del commercio, hanno rivendicato la necessità, oltre che il diritto, ad orari ridotti cominciando dal no al notturno proseguendo con le chiusure almeno parziali alla domenica. Ovviamente abbiamo chiesto con forza che a Pasqua, pasquetta, 25 aprile e Primo maggio anche commessi e cassiere potessero stare a casa”.  Insomma un altro tassello della campagna lanciata dieci anni fa e mai interrotta. Che ha ottenuto qualche risultato:

Abruzzo e Molise - chiuso fino al 3 maggio domeniche e festivi
Campania - aperti mezza giornata, ma qualche comune ha deciso per la chiusura tutta la giornata
Emilia Romagna - chiuso 25 aprile e il Primo maggio
Lazio - chiusi 25 aprile e 26 aprile e Primo maggio
Liguria - aperti mezza giornata fino alle 15 come da ordinanza regionale sia il 25 aprile che il 26 aprile
Marche - chiusi 25 Aprile e 1 maggio, Domeniche alcuni aperti
Piemonte - chiuso per ordinanza Regionale
Sicilia – chiusi domeniche e festivi fino al 3 maggio
Umbria - chiuso tutto il 25 aprile e 26 aprile e Primo maggio
Toscana - 25 Aprile e 1 Maggio tutti i punti vendita sono chiusi
Veneto  - chiusi

Allora si può, verrebbe da dire. È possibile organizzare acquisti e vendite rispettando il diritto al riposo di chi assicura a ciascuno di noi la possibilità di portare cibo sulle nostre tavole. Giuseppe Di Bari è un lavoratore della Esselunga e manifesta una preoccupazione: “Non vorrei, ci dice, che passata l’emergenza della pandemia tutto tornasse come prima. Questa tragedia deve portare anche i nostri datori di lavoro e le istituzioni a riflettere, non è necessario stare sempre aperti”.

No, non è necessario. Anzi queste settimane impongono davvero una riflessione e forse anche un cambio di paradigma. Tutti a casa questo Primo maggio certo, ma le ragioni del lavoro sono ancor più pressanti. Del lavoro che sparisce per l’economia in crisi da Covid-19, del lavoro che deve riprendere ma in assoluta sicurezza, del lavoro che può e deve essere la forza per ricostruire il paese ferito puntando su un diverso modello di sviluppo, magari cominciando dal ripensare i modelli di consumo spostando l’asse dai beni individuali a quelli collettivi.

Certo questo presuppone non solo una riorganizzazione degli orari dei negozi ma anche un indirizzo sulle produzioni e un’idea di paese verso cui tendere. Un cambio di modello di sviluppo, appunto, che il Coronavirus impone. Un Primo maggio, allora, ancora più necessario per cominciare a riflettere su come dovremo cambiare e su cosa dobbiamo puntare.