È un dato di fatto storico che la decolonizzazione del continente africano sia stata raggiunta grazie al coinvolgimento consapevole dei sindacati, che hanno messo a disposizione strutture e capacità di organizzazione, e hanno mobilitato i loro membri e i loro popoli nelle lotte di liberazione. L’obiettivo del movimento sindacale era l’autodeterminazione delle società e degli Stati, consentire a tutti di condividere la prosperità delle nazioni in modo giusto ed equo. I lavoratori africani volevano libertà, pane e pace.

Tutto ciò nei decenni passati purtroppo non è accaduto a causa di diversi fattori. Innanzitutto le interferenze esterne, gli “strangolamentineocoloniali, imperialisti e neoliberali (in particolare i programmi di aggiustamento strutturale), le trappole della guerra fredda. Ma anche le contraddizioni interne (corruzione, clientelismo, nepotismo).

I lavoratori africani hanno dovuto aspettare e aspettano ancora di beneficiare dei dividendi della democrazia. Povertà e disuguaglianza restano endemiche. Si è poi affermata una cultura statale paranoica che vede nel lavoro organizzato un concorrente o una minaccia da contrastare con ogni mezzo, incluso il dispiegamento di forza brutale e repressiva. Le persecuzioni subite dai sindacati in Zimbabwe ne sono state un esempio.

Leggi anche

Internazionale

Il rischio dell’esclusione digitale

Il continente naviga tra quarta rivoluzione industriale e lavoro dignitoso, tra nuova economia e cambiamento climatico

Il rischio dell’esclusione digitale
Il rischio dell’esclusione digitale

Mentre nel continente la crescita economica non si fermava (anche se in gran parte attraverso i settori delle materie prime/estrattive e delle merci), le condizioni dei lavoratori, della loro gente, delle comunità e dell'ambiente non miglioravano. Una crescita basata essenzialmente sull’estrazione di materie prime non creava nuovi posti di lavoro, e i ricavi venivano bruciati e portati via a causa di cattive gestioni, della corruzione e della mancata imposizione fiscale equa sulle grandi multinazionali. L'ambiente è stato sfruttato per oltre quattro decenni, e lo è ancora oggi. I salari in questo periodo non sono cresciuti in modo sostanziale, così da aiutare i lavoratori a far fronte alla sempre crescente iper-inflazione (soprattutto su beni e servizi essenziali). Nel frattempo, naturalmente, i ricchi diventavano più ricchi.

Non scoraggiati, i sindacati africani hanno continuato a lavorare fianco a fianco con altre associazioni democratiche per assicurare la realizzazione della democrazia partecipativa.

All’inizio del ventunesimo secolo le nuove sfide che l’Africa ha dovuto affrontare sono il cambiamento climatico e le infinite crisi civili. Estremismo e terrorismo (da parte di gruppi come Qaeda nel Maghreb, e Al-Shebab e Boko Haram) hanno portato a una maggiore insicurezza nel mondo lavoro, nelle famiglie e nelle comunità, hanno sabotato la stabilità economica e messo a rischio la vita stessa dei lavoratori africani. Più di 500 insegnanti, ad esempio, sono stati uccisi nel nord-est della Nigeria da Boko Haram. I bambini e le bambine soffrono in modo sproporzionato delle attività e degli attacchi di questi gruppi: le loro scuole vengono distrutte, e spesso sono rapiti e arruolati come bambini soldato.

I problemi causati dal cambiamento climatico si fanno sempre più gravi. L'Africa sta ancora lottando con l’incapacità di gestire l'adattamento, la mitigazione e la transizione. Gli effetti dei cambiamenti climatici si fanno sentire sugli agricoltori. Inondazioni e siccità portano al fallimento delle coltivazioni e dei raccolti. Aumento delle temperature e prosciugamento dei bacini idrici stanno innescando problemi di salute e dispute sui confini terra-acqua. Il prosciugamento del bacino del lago Ciad, per fare un esempio, contribuisce in parte al facile reclutamento di giovani da parte di Boko Haram. La maggior parte di questi giovani sono pescatori e agricoltori che hanno perso il lavoro a causa del restringimento del bacino.

La sfida della crescita demografica è un'altra questione controversa. Il fatto che il continente africano vanti una popolazione molto giovane dovrebbe essere una benedizione. Invece sta rapidamente diventando una sorta di “maledizione”, data l'alta e crescente disoccupazione e sottoccupazione giovanile. Sempre più giovani e donne che non riescono ad accedere al mercato del lavoro entrano nell'economia informale, solo per cercare di sopravvivere.

Le sfide alla povertà e alla disuguaglianza sono rese più ardue dall'aggravarsi della disoccupazione e dalla perdita di posti di lavoro. E i sindacati faticano nelle campagne di tesseramento. L'epidemia di Coronavirus ha esacerbato la situazione, eppure le unions africane stanno cominciando ad affrontare la necessità di ricalibrare le priorità nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro. La crisi sanitaria globale ha fornito l’occasione per rendersi conto che la salute è un diritto umano.

Gli accordi su telelavoro e lavoro remoto domestico, sottoscritti durante il Covid, hanno accelerato la digitalizzazione. Ma la marcia del continente africano verso la quarta rivoluzione industriale (4IR), annunciata con toni trionfalistici e campagne promozionali su innovazione, invenzione, robotica, intelligenza artificiale, ha anche portato a una crescente perdita di posti di lavoro e all'insicurezza del reddito, e sta cambiando a un ritmo velocissimo la natura, lo status e l'essenza stessa dei lavori svolti. È vero che l'introduzione di scienza e tecnologia nella nostra vita quotidiana alzerà il livello del benessere, ma c'è un estremo bisogno di regolamentarle. Il telelavoro sta già danneggiando i lavoratori africani su diversi fronti: sovraccarico o straordinari in assenza di compensazioni salariali, problemi ergonomici (salute e benessere dei lavoratori in postazioni non professionali), violazione della privacy da parte dei supervisori.

 

Una tendenza preoccupante si conferma se solo osserviamo come molti lavoratori e giovani africani stiano reagendo alle difficoltà. La maggior parte di loro è costretta a viaggi migratori disperati, e corre il rischio di cadere in mano a criminali, gruppi armati, rapitori, trafficanti di esseri umani, e di perdere la vita.

L'Organizzazione regionale africana della confederazione internazionale dei sindacati (Csi-Ituc Africa) rappresenta i lavoratori di 52 paesi africani su 54, attraverso oltre 110 sigle affiliate. Nei suoi ultimi tre congressi sono emerse le questioni prioritarie elencate e descritte sopra. In termini concreti, le risposte a queste sfide sono state inquadrate in un Piano strategico che viene rivisto ogni quattro anni. Il Piano strategico analizza le questioni suddivise in cornici tematiche, propone obiettivi e predispone indicatori per quantificare il raggiungimento dei risultati. Molti degli obiettivi prefissati riguardano la realizzazione dell'Agenda Ilo per il lavoro dignitoso.

I sindacati africani hanno capito che, perché le loro campagne abbiano successo, i messaggi devono essere ampi e inclusivi, in modo che più persone possibile vi si possano riconoscere. Anche per fare fronte a una difficoltà dovuta al declino della rappresentanza, è sempre più necessario collaborare con attori non statali, non sindacali e progressisti, come le organizzazioni della società civile, le comunità religiose, le istituzioni e le strutture culturali, il mondo accademico, i media. La Csi-Ituc Africa lo sta facendo, e collabora con molte organizzazioni di solidarietà e cooperazione su diversi temi.

Sarà cruciale mettere in campo azioni a livello locale, nazionale, regionale e internazionale. Saranno necessari la solidarietà, il partenariato e la collaborazione nel mondo del lavoro. È fondamentale che l'attuale crisi sanitaria globale sia convertita in un'opportunità per costruire un futuro migliore. Per riuscirvi, avremo bisogno di un movimento sindacale africano consapevolmente mobilitato, attrezzato e pronto a impegnarsi. I sindacati non devono mai sottrarsi alla lotta quando è necessaria. Dobbiamo lottare con giudizio e con ragioni convincenti, soprattutto quando ci troviamo di fronte a crisi come quelle elencate sopra. Non combattere significa che il fallimento è un fatto compiuto. Ma quando ci organizziamo e ci mobilitiamo, le possibilità di successo sono enormi.

Akhator Joel Odigie è coordinatore dell’area diritti umani e sindacali Csi-Ituc Africa

(traduzione a cura di Davide Orecchio)