“Tutti noi che conosciamo il Che sappiamo che non c’è modo di catturarlo vivo, a meno che non sia incosciente, a meno che non sia messo completamente fuori combattimento da qualche ferita, a meno che non gli si rompa l’arma, infine a meno che non abbia nessuna possibilità di evitare di finire prigioniero togliendosi la vita”, con queste parole, il 15 ottobre 1967, il líder máximo Fidel Castro raccontava la fine dell’eroe della rivoluzione cubana; Guevara era stato assassinato in Bolivia pochi giorni prima, il 9 ottobre.

Ma chi era il Che? Dopo la laurea in medicina, nel 1953 l’argentino Ernesto Guevara decide di intraprendere un viaggio attraverso i diversi Paesi dell’America Latina. “Anche se non militava in alcun partito, in quell’epoca aveva già idee marxiste - scriveva  Fidel Castro - Mentre si trovava in Guatemala ci fu l’invasione di quel Paese diretta dalla Cia .... I cubani, insieme ad altri latinoamericani che si trovavano lì, furono costretti a lasciare il Paese e si trasferirono in Messico. Alcune settimane dopo arrivammo noi ... e in calle Emparán incontrammo il Che” (sull’origine di quel soprannome Fidel scrive: “All’inizio era Ernesto. Da argentino aveva l’abitudine di rivolgersi agli altri con la locuzione che, e così iniziammo a chiamarlo noi cubani”). Il 10 marzo del 1952, con l’appoggio delle lobby dello zucchero e con il beneplacito di Washington, il sergente Fulgencio Batista instaurava la dittatura nell’isola di Cuba con un colpo di Stato.

Il 26 luglio dell’anno successivo, uno studente universitario - Fidel Castro - guiderà in opposizione al regime, insieme al fratello Raul ed alla testa di un centinaio di studenti, l’assalto alla caserma Moncada, avvenimento convenzionalmente indicato come inizio dei fatti svoltisi nello Stato durante gli anni Cinquanta. L’attacco fallisce ed i suoi esecutori vengono torturati, imprigionati, uccisi. Dirà il 16 ottobre nella sua lunga auto arringa al processo il giovane Fidel: “Condannatemi, non importa, la Storia mi assolverà”. Condannato a 15 anni da scontare nella prigione sita sull’Isola dei Pini e rilasciato nel maggio 1955 grazie a una amnistia generale, Castro andrà in esilio in Messico e negli Stati Uniti.

A Città del Messico Fidel, tramite un gruppo di esuli compatrioti, conosce un giovane medico argentino, Ernesto Guevara de la Serna, idealista rivoluzionario che si appassionerà moltissimo alla vicenda cubana tanto da aderire al Movimento 26 luglio. Nella notte di Capodanno del 1959 i rivoluzionari (oltre a Fidel, Raul e al Che, ci sono Camilo Cienfuegos e Celia Sanchez) liberano L’Avana costringendo alla fuga Batista e i suoi seguaci. Un mese dopo Fidel Castro viene nominato primo ministro.

Parte la riforma agraria, che nazionalizza tutti i possedimenti agricoli di estensione superiore ai 400 ettari ed il governo procede all’esproprio delle società straniere, riconoscendo la Repubblica popolare cinese e stipulando contratti commerciali con l’Urss ed i paesi del Patto di Varsavia. Il Che ha una posizione di primissimo piano nel gruppo dirigente rivoluzionario: prima presidente del Banco nacional (1959), poi ministro dell’Industria (1961), compie numerosi viaggi in Africa e in America Latina e diventa il simbolo della rivoluzione cubana nel mondo. 

Dopo un lungo viaggio in Africa, nel marzo 1965 a fa ritorno all’Avana e si dimette da tutte le cariche istituzionali. Scrive ai genitori: “Riprendo la strada, scudo al braccio …. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che vogliono liberarsi”. Negli ultimi mesi del 1966 è in Bolivia per organizzare un’insurrezione popolare. L’8 ottobre 1967, nella quebrada del Yuro a pochi chilometri dal villaggio di La Higuera, sarà catturato ed ucciso nel pomeriggio del giorno successivo. La versione più accreditata racconta che il Che ricevette diversi colpi d’arma da fuoco alle gambe, sia per evitare di deturpargli il volto e ostacolarne l’identificazione, sia per simulare ferite in combattimento che avvalorassero la versione ufficiale della sua morte.

“Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono - scriverà Italo Calvino - Sento la sua risata che mi risponde, piena d’ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell’Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d’un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d’una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sé e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori. Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l’avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze. In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. È una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l’estremo rigore della sua lezione".

"La 'linea del Che' - proseguirà Calvino - esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la “linea del Che” vuol dire - una trasformazione radicale non solo della società ma della “natura umana”, a cominciare da noi stessi - e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica. La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz’abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allargarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d’invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell’Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione. Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione”.

Solo il 17 ottobre del 1997 i resti suoi e quelli dei sei compagni che morirono con lui in Bolivia, arriveranno a Cuba in piccole teche di legno a bordo di rimorchi trainati da jeep. Ad attenderli una folla di diverse centinaia di migliaia di persone e Fidel Castro che dirà nell’occasione: “Perché pensano che uccidendolo avrebbe cessato di esistere come combattente? Oggi è in ogni luogo, ovunque ci sia una giusta causa da difendere. Il suo marchio indelebile è ormai nella storia e il suo sguardo luminoso di un profeta è diventato un simbolo per tutti i poveri di questo mondo”. Effettivamente negli anni successivi alla sua morte, il mito del Che, tenebrosamente bello e con l’immancabile sigaro che ne aumentava il fascino, è diventato di giorno in giorno sempre più importante. Le leggende legate alla sua vita e alla sua morte hanno ispirato poeti, musicisti, artisti, facendo innamorare, in fondo, un po’ tutti noi.