La montagna pare aver partorito il topolino. L’attesa per il dibattito fra i due candidati alla vicepresidenza, Biden per Obama e Palin per McCain, era cresciuta nel corso delle scorse settimane, sull’onda delle gaffes e delle riposte maldestre di Sarah Palin ai giornalisti. Incapace di definire la dottrina Bush della guerra preventiva, di fornire almeno due esempi di sentenze della Corte Suprema che non ha condiviso, di pronunciare il nome di un paio di quotidiani e settimanali nazionali che legge assiduamente ed infine pronta a sostenere in modo spericolato che è la prossimità territoriale dell’Alaska alla Russia ad essere la migliore garanzia della sua esperienza nella politica estera e di sicurezza nazionale, Sarah Palin sembrava condannata, con quella che si annunciava come una pessima prestazione al dibattito vice-presidenziale di ieri sera, ad estinguere l’enorme credito che una parte consistente dell’opinione pubblica le aveva riconosciuto con la convention repubblicana. Il dibattito, invece, è andato diversamente e la Palin è stata capace di dissimulare quella che è stata definita da uno stratega democratico come la sua “suprema impreparazione alla vicepresidenza”. Molto diretta nell’evitare quasi sistematicamente le domande del moderatore e nell’offrire la minor quantità possibile di dettagli di policy, Palin ha scelto ancora una volta di sintonizzarsi intimamente con l’opinione conservatrice. Biden ha risposto in modo adeguato e pressante concentrandosi sui temi forti della campagna democratica. La cordialità fra i due ha avuto dello straordinario, soprattutto a fronte della manifesta ostilità – per la verità, evidente soprattutto in McCain – che ha caratterizzato il dibattito presidenziale di una settimana fa.

Quindi niente di nuovo dal punto di vista dei contenuti, ma una replica, non sempre in tono minore, del dibattito presidenziale di una settimana fa. Da una parte – Palin - la promessa di tagliare le tasse, quella di scuotere Washington e il governo federale che troppo spesso rappresenta il problema e non la soluzione, di tagliare la spesa pubblica, di “dare più spazio al settore privato ed alle famiglie” e lo sdegno per un’eventuale amministrazione Obama che sposerebbe politiche di redistribuzione del reddito. Dall’altra – Biden - l’impegno a rompere con le politiche economiche dell’amministrazione uscente, ad investire nella middle class che è il “vero motore dell’economia” attraverso una politica fiscale equa – “evitare quattro milioni di dollari di nuovi sconti fiscali alla Exon Mobil, è equità non redistribuzione”, parola bandita anche in ambienti democratici - e il piano di Obama per rendere l’assistenza sanitaria finalmente universale. Al centro del dibattito anche la mega-operazione di rientro dalla crisi finanziaria prima respinta dalla camera dei rappresentanti e poi approvata, con diverse modifiche, dal Senato. Qui la differenza nella diagnosi è enorme, da una parte Palin definisce genericamente quanto consumatosi nelle scorse settimane come il frutto della corruzione di Wall Street che un’eventuale amministrazione McCain combatterebbe, dall’altro Biden che vede nella crisi il frutto di una filosofia economica sbagliata che fa della deregolamentazione la risposta a tutti i problemi.

Sull’energia – altro tema centrale della campagna elettorale - la Palin si sente tanto a suo agio da parlarne ossessivamente anche quando le vengono rivolte domande di altro tema. Offrendo al paese le politiche energetiche che ha sperimentato in Alaska, afferma di volersi concentrare sulle soluzioni al problema del surriscaldamento globale e non sulla diagnosi delle sue cause, schierandosi quindi per l’estensione della ricerca petrolifera nel paese – canticchia gioiosamente “drill, baby, drill!” (trivella, piccola, trivella), lo slogan dei trivellatori più radicali - ma anche per le energie rinnovabili. Biden risponde che se non si è sicuri della causa – che per lui é indubitabilmente la crescita delle emissioni derivanti da combustibili fossili – non si può avere una vera politica energetica, per questo il piano Obama diversamente da quello di McCain sceglie di ridurre drasticamente la dipendenza del paese del petrolio. Dall’energia si passa poi alle coppie di fatto, con la scoperta inaspettata - annunciata dalla moderatrice del dibattito - del recente riconoscimento, proprio nello stato guidato da Palin, l’Alaska, di alcuni diritti alle coppie omosessuali. Presa in contropiede, Palin assicura che la tolleranza non significa in alcun modo ridefinizione del matrimonio che è e deve rimanere un’istituzione eterosessuale, uno dei temi che sta ovviamente più a cuore al suo elettorato conservatore. Biden, evasivo sul matrimonio, entra invece nello specifico quando si tratta di elencare i diritti che secondo lui occorrerebbe garantire alle coppie dello stesso sesso.

Si arriva infine alla politica estera, tema sul quale l’inesperienza e le scarse conoscenze della Palin sono ormai divenute proverbiali, diversamente da Biden forte dei suoi trent’anni di esperienza parlamentare che non raramente l’hanno visto protagonista di decisioni importanti, nei Balcani come altrove nel mondo. Palin si attiene strettamente alle posizioni ufficiali di McCain, con l’aggiunta di un po’ di retorica neoconservatrice, senza avventurarsi su terreni potenzialmente ostili: la nuova strategia irachena ha funzionato ed occorre estenderla in Afghanistan, l’asse del male – essenzialmente Iran, Cuba e Nord Korea – è ancora una realtà e bisogna combatterlo, è folle trattare con gli iraniani che vogliono cancellare Israele, l’idea di ritirarsi dall’Irak ora equivale a una resa. Biden replica che McCain non farebbe che ripetere gli errori di Bush e la sua disastrosa politica medio-orientale. Dichiarandosi il più grande amico di Israele nel Senato americano, denuncia la politica di Bush che ha finito per rafforzare tutti i nemici dello stato ebraico: Hezbollah, Hamas ed il regime iraniano. Un’amministrazione Obama-Biden rivolterebbe la politica estera come un calzino, a partire dalla guerra in Iraq, “che assorbe in tre settimane quello che è stato il costo totale delle operazioni in Afghanistan dal loro inizio”. Anche per questo occorre organizzare il ritiro delle forze americane in tempi ragionevoli.

Ad ormai un mese dalle elezioni, la tendenza alla crescita di Obama nei sondaggi sembra consolidata, soprattutto negli stati dall’orientamento più incerto: Virginia, West Virginia Ohio, Missouri, Florida. A livello nazionale, secondo le rilevazioni più generose, la distanza fra i due si sarebbe allargata fino a nove punti percentuali. Ed è difficile pensare che il dibattito di ieri sera possa aver indebolito questa tendenza.