Antonietta De Lillo è una delle registe e autrici più interessanti e argute del panorama cinematografico italiano. Nata fotografa, scopre successivamente la macchina da presa, diventando una delle maggiori esponenti del cinema di finzione e del reale. Tra i suoi lavori, pluripremiati, ci sono “Il Resto di Niente” e i film partecipati, che sperimentano il racconto collettivo e la mescolanza di linguaggi amatoriali e professionali, come “Il pranzo di Natale” e “Oggi insieme, domani anche”. Antonietta De Lillo è membro dell’Accademia del Cinema Italiano (che conferisce i David di Donatello) e presidente della Marechiarofilm. A lei abbiamo chiesto di riflettere sul ruolo della donna nel cinema oggi, dietro e davanti all’obbiettivo, tra stereotipi, pratiche quotidiane e voglia di cambiamento.

Antonietta De Lillo, la pandemia (che stiamo ancora affrontando) ha generato una crisi economica, oltre che sanitaria, enorme. Quasi un milione di persone hanno perso il lavoro. I dati Istat ci dicono che sono soprattutto donne. Questa fotografia vale anche per il settore del cinema e dell’audiovisivo?

Io penso che sia vero che le donne siano via via entrate sempre di più nel mondo del lavoro, ma siamo ancora lontani dall’equità. Il problema è che questo mondo non accoglie le esigenze delle donne, che dipendono ancora molto dal costume della vita privata e familiare. In una situazione in cui tutti abbiamo sofferto, le persone che hanno sofferto di più sono quelle che non avevano strutture di sostegno e una rete di supporto intorno a loro, e quindi soprattutto le donne. Il dramma della pandemia, inoltre, ha accelerato l’esplosione di processi già in atto, così come tutti i problemi legati al mondo del lavoro, che va ripensato anche a prescindere dal genere. Un trauma fortissimo come quello della pandemia ha fatto pagare un prezzo enorme alle donne, chiuse in casa e schiacciate tra lavoro e famiglia. Le mie figlie sono grandi, per fortuna, ma ho provato a immaginare la situazione di chi ha figli piccoli e credo che sia stata, e sia, davvero molto pesante e faticosa. Non sono un’osservatrice così attenta da dire se in termini globali le donne abbiano perso più posti di lavoro, ma per quanto riguarda lo spettacolo e la cultura, c’è da sottolineare che si è creata una situazione strana e contraddittoria: da una parte si è fermato tutto, nello spettacolo dal vivo, mentre per il cinema la produzione ha avuto uno stop relativo. Le troupe hanno continuato a lavorare, seppur tra mille limiti e difficoltà.

Tra le tante problematiche che la pandemia ha fatto deflagrare, come ha giustamente osservato lei, ci sono quelle relative alla situazione dei lavoratori dello spettacolo. Per la prima volta, dopo decenni, artisti e tecnici hanno fatto fronte comune, sono nati movimenti e gruppi intorno a una nuova coscienza collettiva di “classe”. Anche il pubblico e le istituzioni sembrano essersi accorti di questi lavoratori invisibili o considerati, a torto, dei privilegiati. Cosa succederà ora secondo lei? Tornerà tutto come prima o si farà tesoro di questa esperienza?

Io sono un’ottimista della volontà, non mi piace soccombere al destino del nefasto. Quindi voglio credere che la lezione della pandemia rappresenti anche un’occasione di miglioramento e di cambiamento della politica, della società e, nello specifico, nella vita delle donne. Pensiamo a un problema come quello della crescita zero. Questa pandemia ci ha insegnato che bisogna consolidare la crescita dei bambini come un’attività che non può più essere considerata esclusivo appannaggio delle donne. Bisogna tornare all’idea di una comunità, di una collettività che cresce un bambino. O facciamo sistema oppure non funziona. La maternità viene considerata come un fatto solo personale, non come un’esigenza collettiva, familiare. Allo stesso modo, e di conseguenza, le norme (come il congedo di maternità per esempio) sono concepite sulla singola donna. Non bastano le regole, ci vorrebbe anche una bella dose di buon senso. La maternità non è solo appannaggio della donna, delle donne, ma dell’intera comunità. Al di là di chi ha pagato di più o di meno, in questo momento dobbiamo ripensare a tutto. Ci siamo fermati, dobbiamo ripartire e abbiamo tre opzioni: non ripartire – e sarebbe tremendo - ripartire come prima - e che tristezza! – oppure fare di questa ripartenza l’occasione per lavorare a tutte quelle riforme che servono a ripensare il nostro futuro. C’è bisogno anche che le donne facciano un salto di qualità, che non può essere incentivato solo con le quote rosa. Devono cambiare lo sguardo, l’impostazione culturale, il costume. La presenza delle donne, anche nei ruoli dirigenziali, in questo momento è cruciale, ma non possiamo farne solo un ragionamento quantitativo. Ciò che fa la differenza è la qualità.

Antonietta De Lillo, il cinema racconta questa rivoluzione, la precede o la ignora? Qual è, oggi, il ruolo della donna sul grande schermo?

Il cinema e l’industria culturale hanno una doppia responsabilità rispetto a tutte le altre industrie. Noi abbiamo una funzione molto importante perché creiamo contenuti, modelli, e questo ci dovrebbe rendere, in momenti come quello attuale, l’avamposto della rivoluzione. Credo che, invece, non se ne veda ancora tanto la traccia. Però penso anche che la pandemia abbia finalmente risvegliato una coscienza critica negli autori e negli artisti, e anche nel pubblico. Ci siamo di nuovo avvicinati alla politica, mentre per tanto tempo ci eravamo disaffezionati, senza neanche rendercene conto. Questo fatto di vedere che la gente moriva perché mancavano i posti negli ospedali ci ha fatto toccare con mano quanto fossimo stati disattenti fino ad ora. I contenuti che produrremmo nel futuro prossimo tenteranno di dire la loro e di immaginarsi un mondo diverso, in cui anche la donna sarà raccontata in maniera diversa. Oggi usciamo da un’epoca in cui i contenuti sono stati o molto esasperati o di puro intrattenimento, o di parodia della società attuale. Non si è fatto altro che rappresentare la donna come simbolo della società tradizionale, oppure oggetto del desiderio maschile o in quanto eroina. In qualità di giurata dei David di Donatello, nelle ultime due edizioni ho notato che i ruoli femminili veramente memorabili sono stati molti di meno rispetto a quelli maschili. Non parlo dell’interpretazione, ma della scrittura e dell’immaginario da cui nascono i personaggi. Mi auguro che un’industria del divertimento solo di genere, che a lungo andare può anche annoiare, venga sostituita da un’industria che produca quel divertimento che fa riflettere, come Scola, Age e Scarpelli sapevano far ridere ma fornendo il punto di vista del cinema sulla società in cui era immerso. Raccontarci in maniera politica, sempre con ironia, ma con uno sguardo critico teso al miglioramento.

E il gender gap al di qua della macchina da presa? Cosa vuol dire fare la regista nel 2021? Ci sono ancora lavori da uomini nel cinema?

È molto complicato. Non ci sono più veri e propri pregiudizi da un punto di vista artistico, aumentano le documentariste, le donne che insegnano cinema. Il problema è che vengono apprezzate solo in teoria. “Le donne sono più brave” si sente dire sempre, ma quando poi si tratta di entrare in un sistema produttivo importante - non si sa perché - ci si fida di più degli uomini. Allora io mi chiedo: il problema è forse che siamo talmente tanto affidabili che non riusciamo a mentire, e in un sistema che non ci piace sappiamo dire di no? E quindi, paradossalmente, un nostro pregio diventa immediatamente un nostro difetto? Tutti i luoghi comuni nascono sempre a partire da una verità di fondo. E quindi le donne sono più brave, più capaci, più creative. Ma poi quando dobbiamo decidere chi fa il direttore generale e chi è ai vertici (quando si gira un film bisogna fidarsi) improvvisamente delle donne ci si fida di meno. E allora io mi chiedo perché, se siamo “più” in tutto? Siamo noi che non funzioniamo o è il sistema che si fida maggiormente della mediocrità? Io sono convinta che il sistema percepisca come più addomesticabile un uomo che una donna. C’è un problema culturale che dobbiamo scardinare. Gli uomini amano riferirsi a se stessi, hanno più difficoltà (ma non per cattiveria) a parlare in maniera paritaria con una donna. In questa battaglia per il cambiamento, però, noi non dobbiamo fare l’errore di difendere diritti personali. Bisogna esserci perché c’è bisogno che noi ci siamo. In un momento in cui tutto è in conflitto e ognuno racconta la sua verità, per affermare le mie ragioni devo screditare le tue. E invece no, noi dobbiamo essere brave a non fare quest’errore.

Concludiamo questa chiacchierata ricordando una vera rivoluzionaria che ci ha lasciato da poco: Cecilia Mangini, un’antesignana delle donne al cinema e nel cinema. Che eredità lascia alle donne che fanno questo mestiere?

Cecilia ci lascia l’eredità di una donna che sta sul campo e questa è la cosa fondamentale. L’insegnamento di una donna che non ha paura di andare nei posti dove è sola, negli avamposti. Una donna che ha praticato l’uguaglianza di genere forse senza neanche dirlo, che è la cosa più importante da fare. Esserci, farsi spazio, essere convinte noi per prime che non c’è niente per cui sentirsi da meno, o indietro, niente da desiderare dal genere altrui. Ciò che conta è, invece, stare bene, essere a proprio agio, essere felici. Cecilia ci ha dimostrato che la parità di genere, più che invocarla, bisogna praticarla.