È il 14 maggio 1991. Il Festival di Cannes è in pieno svolgimento: nella competizione si sfidano alcuni dei maggiori cineasti viventi di quegli anni, come Krzysztof Kieślowski, Marco Ferreri, Theo Angelopoulos e Jacques Rivette. Alla fine il presidente della giuria, Roman Polanski, assegnerà la storica Palma d'oro ai fratelli Coen per Barton Fink. C'è anche qualcos'altro, però, che avviene lontano dai riflettori del concorso principale, precisamente nella sezione Quinzaine des Réalisateurs: proprio quel 14 maggio viene proiettato un piccolo film a basso budget che racconta la storia di alcuni operai inglesi, Riff-Raff di Ken Loach.

Il regista di Nuneaton figlio di un minatore, Ken Loach, era emerso alla fine degli anni Sessanta, nel movimento del docudrama britannico, con i primi titoli come Poor Cow (1967) e il capolavoro Kes (1969), ma allo stesso modo era scomparso dai riflettori. Aveva sempre continuato a girare, certo, ma lontano dal grande pubblico e operando molto in televisione, che per lui non è una diminuzione, bensì anzi il mezzo per raggiungere la fascia più ampia possibile e diffondere una coscienza sociale. Anche per questo non trova posta in concorso di Cannes '91: dopo anni fuori dal giro il nome di Loach non è più così conosciuto, eppure sarà proprio questo film relegato in una sezione collaterale a portarlo agli occhi del pubblico in modo definitivo.

Riff- Raff significa gentaglia, canaglie. Così sono ironicamente indicati gli operai di Londra che lavorano nei cantieri di inizio anni Novanta, nell'epoca della Thatcher di cui il regista fu sempre fiero avversario. Il protagonista del film è Stevie interpretato da Robert Carlyle, attore "inventato" da Loach che poi troverà la gloria in Trainspotting. All'inizio del racconto egli è un homeless che dorme nelle strade di Londra in cerca di lavoro, così da incidere subito lo spaccato della capitale inglese in quegli anni, con la dottrina del thatcherismo che aveva allargato le differenze e generato una schiera di nuovi poveri. Gli amici di Stevie, in ogni caso, lo aiutano a loro modo: occupano un appartamento disabitato per consentirgli un'esistenza dignitosa. Se lo Stato non ti aiuta, come sempre, i poveri ci pensano da soli.

Nel frattempo si sviluppa la vita di cantiere. All'insegna della routine dei più deboli: ogni giorno all'alba i lavoratori si svegliano e recano sui ponteggi, con paghe basse e condizioni di sicurezza praticamente inesistenti, frutto implicito delle liberalizzazioni. Agli inglesi squattrinati si mescolano i migranti, ovvero la forza lavoro che arriva soprattutto dagli Stati africani in cerca di una vita migliore, abituati al rischio quotidiano per qualche sterlina. Inutile dire che non c'è garanzia contrattuale: chi esprime le proprie opinioni, come lo stesso Larry, viene licenziato con un pretesto.

Per Stevie c'è spazio per una storia d'amore, che sboccia quando incontra Susan (Emer McCourt), una ragazza che presto si rivela in difficoltà perché tossicodipendente da eroina. Qui Loach introduce il tema della droga con l'esplosione dell'eroina negli anni Novanta, ovviamente non come stigma sociale, ma come "mostro" che avviluppa gli ultimi, quelli lasciati soli: è il caso della giovane che cerca di restare pulita ma ricade inevitabilmente nella sua condizione di junkie, tossica. La love story tra Stevie e Susan produce anche istanti di grande tenerezza, come la festa a sorpresa di lui, ma subito si presenta come una storia ad elastico, destinata a finire perché per i poveri non c'è spazio per il sentimento.

Il realismo di Loach è scientifico. Il cineasta riprende la sceneggiatura scritta da Bill Jesse, ex operaio edile, che sa bene come si costruisce una casa e lo riversa sullo schermo con piena verosimiglianza, cura del dettaglio, esattezza di particolari. In altre parole, la vita sull'impalcatura viene raccontata da uno che l'ha vissuta davvero. Ma non solo: in sede di casting Loach e i suoi collaboratori si aggirano tra i cantieri di Londra e reclutano dei veri operai, secondo la strategia del regista che chiede agli attori non professionisti di rifare sullo schermo il lavoro che svolgono nella vita. Quelli che vediamo allora non sono attori che fanno gli operai, ma operai che fanno gli attori, quindi sostengono la parte di se stessi.

Riff-Raff compie trent'anni con la forza dei classici: la sua centralità nel cinema lavoristico è ormai assodata. Così lo descrive il critico Roberto Lasagna: "Loach diventa un nome di riferimento nel 1991 grazie a Riff-Raff, prodotto da Channel Four, in cui il regista realizza il film più bello ed esemplare della British Reinassance (...). Loach diviene, nell'attenzione dei personaggi che colorano una scena di modernità e realismo ribadito dalla "camera a mano" (memore dell'esperienza televisiva del cineasta), il narratore attento dei lavoratori, in questo caso un gruppo di manovali che sbarcano il lunario senza alcuna garanzia sindacale né sanitaria" (Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema, edizioni Mimesis).

Rivederlo oggi chiama (anche) una riflessione sullo scorrere del tempo e l'immobilità di certi problemi, alla faccia dell'evoluzione. Bassi salari, impalcature pericolanti, morti sul lavoro: trent'anni sono davvero passati?

(Foto: immagini del film. Nella foto principale Ken Loach sul set)