Il 12 dicembre 1969 sull’Italia piomba una spirale di violenza che infiammerà e condizionerà gli anni successivi. Una nuova parola entrerà a far parte del linguaggio comune: golpe. Alla vigilia della strage di Piazza Fontana la morte dell’agente Antonio Annarumma - avvenuta il 19 novembre - è al centro della discussione politica. Il 9 dicembre si tiene alla Camera una seduta dedicata ai problemi della violenza e del terrorismo. In quella occasione, liberali, missini e monarchici sollecitano il governo ad assumere posizioni più incisive per quanto riguarda l’ordine pubblico. Il dibattito parlamentare si conclude senza un voto e Il Corriere della Sera all’indomani della strage, collegando la bomba di Piazza Fontana a quel mancato voto, rimprovera al governo una incapacità risolutiva: “Nessuno avrebbe immaginato che quel mancato voto si sarebbe proiettato, con un’ombra sinistra di rimprovero sull’intera classe dirigente”.

In quel dibattito parlamentare il Msi, i monarchici e il Pli accusano il Pci di usare i sindacati “per attuare il suo disegno eversivo”. Comunisti, socialisti e sindacati, dal canto loro, esprimono preoccupazione per la benevolenza e la tolleranza che la polizia concede ai gruppi neofascisti nelle piazze e iniziano a temere manovre autoritarie. Le spinte provenienti da destra premono sulla Dc per varare provvedimenti più restrittivi in tema di ordine pubblico. Il presidente del Consiglio Mariano Rumor, avvertendo che la situazione rischia di essere fuori controllo, interviene alla Direzione del suo partito, il 22 novembre, e si dichiara pronto alle dimissioni. Sulla stampa si possono leggere alcuni passaggi del suo intervento: “Non voglio fare il Facta della situazione, non me la sento di assistere impotente alla dissoluzione dell’ordine democratico”.

Il ministro dell’Interno Restivo, in una intervista rilasciata a Il Tempo, caldeggia la necessità di un cambiamento in tema di ordine pubblico: “Quando queste manifestazioni di violenza esplodono in forme di vera e propria aggressione all’autorità dello Stato, non bastano più le condanne verbali né le deplorazioni solenni”. L’autunno operaio diviene così un problema di ordine pubblico e questa lettura si riversa sulla strage di Piazza Fontana, indicata da subito come figlia deteriore di quella stagione. Qualche ora dopo la strage il prefetto di Milano Libero Mazza invia un rapporto al ministro dell’Interno in cui si legge: “Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi o comunque frange estremiste”. Anche la questura milanese segue questa pista investigativa.

Il sindacalismo confederale prova ad accennare risposte collettive: il 13 dicembre a Milano e a Genova i sindacati organizzano unitariamente dei brevi scioperi in tutti i luoghi di lavoro. A Bologna i tram si fermano simbolicamente per cinque minuti. Successivamente le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil decidono anche di rinviare gli scioperi previsti per il 15 e il 16 dicembre riaffermando al contempo il valore civile e democratico delle lotte in corso.

La sospensione degli scioperi previsti per il 15 dicembre viene decisa anche da Fiom, Fim e Uilm durante la trattativa per il rinnovo del contratto. Al contempo le organizzazioni dei metalmeccanici decidono di organizzare una serie di assemblee con i lavoratori in tutte le fabbriche per discutere con loro della “minaccia reazionaria” in atto.

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Tutte le categorie si mobilitano. La strage crea un clima di forte tensione fra i lavoratori. Nelle fabbriche milanesi si rimane a lungo in attesa delle indicazioni confederali su cosa fare e come reagire. Cgil, Cisl e Uil e le forze democratiche milanesi sembrano quasi paralizzate dopo quanto accaduto. La Fiom spinge per scendere in piazza, per rendere visibile la presenza del sindacato ai funerali, ritenendo necessario organizzare un’importante partecipazione dei lavoratori e, con la minaccia di farlo da sola utilizzando il pacchetto di ore per lo sciopero del rinnovo contrattuale, riesce a trascinare con sé Fim e Uilm.

La sera del 13 dicembre viene dato alla stampa il comunicato che invita i milanesi a scioperare e a recarsi tutti ai funerali: astensione dal lavoro per il giorno 15 dalle nove e trenta ai turni di mensa e informale raccomandazione di non restare a fare il picchetto davanti alla portineria. Moltissimi lavoratori, nei quali è rimasto indelebilmente impresso il ricordo di quei giorni, affollano una Piazza Duomo stracolma. Praticamente impossibile avvicinarsi alla cattedrale dove il cardinale Giovanni Colombo celebra la messa mentre accanto ai familiari delle vittime siedono le autorità cittadine guidate dal sindaco Aldo Aniasi e il presidente del Consiglio Mariano Rumor.

Con la decisione di indire lo sciopero generale Cgil Cisl e Uil, partecipando massicciamente ai funerali, guidano la mobilitazione popolare per esprimere cordoglio alle vittime, difendere la democrazia e la convivenza civile, isolare gli assassini e i loro mandanti e chiedere verità e giustizia. I sindacati tracciano così una strada da seguire in futuro. D’ora in avanti, lo sciopero generale unitario sarà il principale strumento con cui i lavoratori risponderanno pubblicamente al terrorismo, parlando alla gente e riappropriandosi dei luoghi di lavoro e delle piazze ferite. Nel frattempo il legame fra i conflitti sociali, l’estremismo di sinistra e la strage è al centro dell’analisi costruita da Il Corriere della Sera che individua i precedenti di Piazza Fontana negli attentati di aprile, nelle bombe ai treni e nella morte dell’agente Annarumma.

La campagna della stampa contribuisce a creare un clima molto pesante. In una parte dell’opinione pubblica italiana inizia così a consolidarsi la convinzione della colpevolezza degli anarchici e soprattutto dell’esistenza di un legame tra gli autori delle stragi e gli aspri conflitti sociali che attraversano il paese.

Il ’68, per quello che significa come profondo mutamento culturale e presa di coscienza per larghe masse di giovani, l’autunno operaio, soprattutto come punto alto delle lotte e della forza di contestazione e di innovazione della classe operaia, segnano l’emergere a livello di massa di una grande domanda di cambiamento e di democrazia. La strategia della tensione nasce e si sviluppa proprio come tentativo di arrestare e far tornare indietro i processi di trasformazione e di rinnovamento che nelle fabbriche e nella società la classe operaia stava portando avanti. Essa si articola su molti piani, tutti comunque convergenti, per provocare un riflusso verso destra dell’opinione pubblica in “un blocco reazionario”, scrive lo storico Guido Crainz, “che isoli i lavoratori e le organizzazioni sindacali e che, diffondendo la psicosi dell’ordine, della paura, della minaccia permanente alla convivenza civile, prepari sbocchi autoritari che saldino i conti una volta per tutte con l’avanzata operaia”.

Il terrorismo neofascista tende a creare false piste, a far addebitare alla sinistra e alle lotte operaie la responsabilità del caos e del disordine. “Il disordine è rosso, l’ordine è nazionale”, si legge su un volantino del gruppo neofascista Ordine Nuovo all’indomani della strage. Piazza Fontana segna, quindi, il punto massimo di questa fase.

L’isolamento della classe operaia, tuttavia, dura poco. Il movimento sindacale decide di occuparsi direttamente della difesa dell’ordine pubblico avendo la percezione della sovraesposizione delle istituzioni e della società italiana a un rischio di collasso democratico. Questo aspetto è il risultato della confluenza da un lato di un tratto di lungo periodo della cultura politica dei dirigenti sindacali comunisti e dall’altro delle necessità contingenti imposte dalla strategia della tensione. Da una parte c’è il vecchio sogno dei comunisti italiani di potere “controllare le questure”, di gestire in prima persona l’ordine pubblico, dall’altra la totale identificazione nella Costituzione repubblicana e nella sua difesa. Alla denuncia delle connivenze e delle inadeguatezze si affianca la decisione di un’assunzione di responsabilità: la difesa della democrazia e delle sue istituzioni. Questa difesa spetta alla classe operaia, soggetto protagonista del progresso civile e democratico.

Le bombe di Milano però non sono altro che la prima tappa di una escalation del terrorismo neofascista che, oltre allo stillicidio di attentati minori, aggressioni, omicidi, conoscerà altri tragici episodi. Emerge così un secondo scopo del terrorismo neofascista: quello di “creare”, come si legge nel documento elaborato da Cgil, Cisl e Uil dal titolo I lavoratori contro il terrorismo. Strategia della tensione e terrorismo fascista, “una base sociale, un consenso da usare in funzione antidemocratica e antioperaia”. In questo clima lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva serrata ad opera di gruppi diversi e variegati: dai militanti del Msi a tutta la galassia dei gruppi che si muovono alla sua destra. Anche le aggressioni ai militanti di sinistra, alle sedi dei partiti e del sindacato raggiungono grande intensità. Nei mesi successivi Milano è l’epicentro delle azioni squadriste.

Quando il terrorismo stragista prima e la lotta armata poi appariranno nella loro interezza eversiva e nelle loro ramificazioni, i dirigenti del Pci e soprattutto i militanti comunisti compiranno una scelta moralmente ineccepibile, coraggiosa e degna della tradizione resistenziale democratica e costituzionale del partito: la lotta frontale fino in fondo per sconfiggere ed estirpare il terrorismo e la violenza politica all’interno del mondo del lavoro e in tutti i settori della società e delle istituzioni deviate, anche ricorrendo all’integrazione e alla sostituzione spesso delle immature istituzioni di tutela dell’ordine democratico da parte dello Stato.

Questo sforzo enorme, di massa, unico e straordinario in tutto l’Occidente, nel contrasto al terrorismo, salverà lo Stato democratico ma verrà coniugato e “speso” unilateralmente, e cioè senza soluzioni alternative, su quel progetto politico di legittimazione che, per paradosso, proprio il contrasto vittorioso al terrorismo stava minando e vanificando agli occhi delle ciniche classi dirigenti economiche e soprattutto politiche e culturali, man mano che la partita della lotta armata e dell’eversione rossa si esauriva. Sforzo unico e straordinario come unici sono la durata, l’intensità e il carattere di massa del fenomeno eversivo italiano.

In questo contesto la Cgil torna a sperimentare i tratti di originalità che contraddistinguono il movimento sindacale italiano e ne fanno un unicum nel panorama europeo. Una Repubblica che nasce sul compromesso costituzionale con le forze del lavoro e che negli anni Settanta arriva a reggersi sulla centralità sindacale fa sì che in quel tornante decisivo, come negli altri della storia del Paese, sia il sindacato a farsi carico della tenuta delle istituzioni anche e, fondamentalmente, al di là del funzionamento classico di una democrazia liberale.

Francescopaolo Palaia è ricercatore presso la sezione storia e memoria della Fondazione Giuseppe Di Vittorio