Il congresso della Cgil si svolge durante una fase particolare della storia del lavoro salariato. In questi decenni, abbiamo assistito a dei cambiamenti profondi delle strutture produttive, dell’organizzazione del lavoro, delle professioni, cambiamenti che hanno progressivamente ridotto le condizioni economiche e quelle dei diritti del mondo del lavoro. La stessa capacità contrattuale si è ridotta, spesso, a una fase puramente 'difensiva'.

Spesso, abbiamo imputato questa fase alla ridotta capacità rivendicativa, alle mutate condizioni lavorative e al recupero del ponte di comando dell’impresa. Tutto ciò è stato imputato al mutamento della 'fase politica', ai mutati rapporti fra le classi sociali, dopo la fine del mondo socialista o alla potenza delle logiche finanziarie e alle politiche monetarie adottate per la costruzione della moneta unica europea. Spesso le diverse letture sulla 'centralità' di questo o quel fattore hanno portato a separazioni, a rotture, a divisioni all’interno dei movimenti, dei partiti, generando risposte divergenti che non hanno avuto la capacità di affrontare la 'complessità' del passaggio, l’apporto che ognuno di quei fattori determinava.

Di fronte al passaggio che stiamo vivendo, non basta, semplicemente, 'proporre' qualche 'ricetta' socialmente più equa. Dobbiamo assumere una capacità complessa di lettura dei processi e recuperare i fondamentali del metodo di analisi che determinò nell’’800 e nel ‘900 la nostra capacità di mobilitare masse sterminate a rivendicare non solo il diritto a condizioni di vita migliori, ma anche il diritto (e oggi direi il dovere) a lottare per una forma nuova di società, una modalità diversa di produrre per i nostri bisogni. In una parola, una forma diversa del Potere.

A mio avviso, infatti, non ci siamo addentrati sulle cause che una volta avremmo chiamato 'strutturali', che stanno intrecciando i vari cambiamenti in atto. Questa forma strutturale del passaggio che viviamo deriva, a mio avviso, dalla introduzione sempre più massiccia delle tecnologie digitali nei processi produttivi, la modificazione delle forme dell’organizzazione del lavoro novecentesche, l’impatto sulle professioni, l’emersione di cicli produttivi immateriali, l’emersione di 'lavori' completamente sganciati dal ciclo salariato e dalla possibilità di generare, attraverso la forme di relazione delle piattaforme, nuove forme di relazioni produttive in grado di sottomettere il lavoro a condizioni post-salariate di sfruttamento.

Il ciclo produttivo 'tradizionale' iniziò a essere investito dalle tecnologie digitali negli anni Ottanta (al tempo le chiamavamo 'macchine a controllo numerico') e nel giro di poco più di un decennio il taylorismo slittò verso una nuova capacità pervasiva di organizzazione del ciclo. La forma della 'parcellizzazione, cooperazione e controllo' che caratterizzava 'la linea' esplose tutte le sue potenzialità attraverso la potenzialità del digitale. La parcellizzazione, allora, diveniva 'liquida', consentendo di costruire la linea in maniera 'esplosa', separando fisicamente i luoghi della sua composizione, consentendo di costruire 'una parcellizzazione diffusa sui territori-mondo'. Questo consentiva di spargere la catena produttiva, perché la cooperazione poteva essere garantita dal controllo digitale del ciclo produttivo, anche in assenza di una contiguità fisica delle mansioni. Infine, il digitale trasferiva il controllo del lavoratore direttamente alla macchina, anzi alla relazione tra il lavoratore e la 'macchina digitale', con la quale operava attraverso la forma del programma con la quale agiva (algoritmo). Il taylorismo era diventato il taylorismo digitale.

Molte delle condizioni di delocalizzazione, precarizzazione, dequalificazione, a cui abbiamo dovuto dare risposte in questi anni, derivano certo anche dalle condizioni 'politiche' e 'finanziarie', ma queste erano 'attivate' dalla necessità/possibilità che le nuove forme produttive rendevano disponibili al processo di valorizzazione del capitale. Senza questa potenza, probabilmente, staremmo ancora alle condizioni sociali del lavoro degli anni Ottanta. Abbiamo bisogno di una contrattazione che sappia arrivare al nocciolo di questa forma del ciclo produttivo, a partire dalla contrattazione del sapere sociale e umano che viene inglobato nella macchina e di poter redistribuirlo attraverso una riduzione generalizzata e forte dell’orario, a parità di salario e una crescente capacità di contrattazione di nuovi apparati digitali.

Accanto a questa enorme trasformazione, il processo della digitalizzazione ha prodotto una forma di 'lavoro' non salariato che è alla base del grande processo di accumulazione che ha portato aziende come Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, ecc. a essere aziende capitalizzate più del Pil di nazioni, come l’Italia. Tutte le principali aziende digitali, infatti, hanno la loro base produttiva direttamente nelle relazioni sociali, rendendole un processo produttivo di valore. Un processo produttivo ove il pluslavoro diviene il 100% a totale vantaggio dell’impresa. Quello che noi facciamo attraverso i nostri smartphone in ogni momento della nostra vita, anche quando pensiamo di non usarlo, è di produrre “dati”, “informazione” che si trasformano in valore attraverso gli algoritmi in grado di estrarne 'senso'. Questa nostra 'attività lavorativa non retribuita e non contrattata' – che chiamai lavoro implicito - sta caratterizzando, da oltre un quindicennio, una nuova fase della riproduzione del capitale. Uno dei compiti nuovi del sindacato sarebbe quello di prendere coscienza di questa nuova forma di 'lavoro' e di contrattarne condizioni e retribuzione, andando proprio a definire socialmente la 'proprietà e gestione dei dati'. Non basta lasciare questo territorio alle regolamentazioni europee o alle normative nazionali. Serve individuare un territorio nuovo di contrattazione e una nuova fase di rivendicazione.

Tutto questo diviene urgentissimo oggi. Non solo per la potenza che tali multinazionali globali hanno assunto e che consente loro di essere più forti d'intere nazioni. Il salto tecnologico che i sistemi di intelligenza artificiale, come il Gpt-3 di OpenAi oggi e lo Sparrow di Google domani, ha messo a disposizione nei cicli produttivi sono solo l’annuncio di ciò che sarà disponibile da qui a pochissimi anni, forse solo pochi mesi. Non possiamo più ignorare la potenza di calcolo nella sua capacità non di diventare 'intelligente', quanto e più dell’uomo, ma di andare a sostituire tutte le forme di attività ripetitiva sia nella sua versione 'industriale' (attraverso la robotizzazione) sia nella sua versione di processo burocratico-amministrativo (attraverso i software). Non esiste campo che non sia investito da questa forma della potenza di calcolo. Dal settore automobilistico (dalla robotizzazione della produzione, fino ai servizi di mobilità cittadina dei taxi, passando per la 'rottura' della forma del possesso personale di un’auto) per arrivare alla stessa forma della pubblica amministrazione (ove i processi di rigenerazione dei flussi decisionali e amministrativi stravolgeranno quantitativamente e qualitativamente l’occupazione), passando per interi settori, come quelli bancari, edilizi, informativi, commerciali, e così via. Tutto ciò impatterà sulla stessa forma del nostro modello di welfare. Per questo, abbiamo bisogno di un sindacato che sappia leggere questi processi e comprendere la fase nuova che si è aperta.

Sergio Bellucci, scrittore e giornalista


 1 Sulla proposta del taylorismo digitale puoi confrontare Bellucci, S. E-Work. Lavoro Rete Innovazione, Derive e Approdi, Roma, 2005.

2 Ibidem

3 Sull’impatto dell’intelligenza artificiale puoi confrontare Bellucci, S. AI-Work. La digitalizzazione del Lavoro, Jaca Book, Milano, 2021.