Questo dialogo è tratto da due lettere inviate alla Cgil dell'Umbria in occasione del convegno "La crisi ci rende matti" organizzato a Perugia mercoledì 22 febbraio 2017. A scriverle una lavoratrice e un lavoratore, oggi disoccupati, di un'azienda del settore editoriale. 

VOCE1
Ho lavorato per 13 anni in un’azienda che dal gennaio 2016 non esiste più. L’esperienza più importante della mia vita. Lì dentro ho visto accadere di tutto, davvero. Ho avuto a che fare con ottimi professionisti e pure con “gente” che non ha, a  tutt’oggi, la minima idea di cosa faccia per campare. Venivo etichettato come "abbastanza inutile" a detta di capi e top manager. Sono un grafico, fui preso per impaginare e disegnare, per migliorare graficamente un prodotto. Non fu quasi mai così.

VOCE2
Come una caserma… Oppure (Elmetto in testa! ragazzi si scende in trincea…). Ti rendi conto di essere stata arruolata, invece che assunta, a poco a poco. Te ne accorgi il giorno che ti viene detto “non sei pagata per pensare, ma per fare quello che dico io” e non perché hai espresso la tua opinione su chissà quale strategia aziendale, ma semplicemente perché hai eccepito che il titolo di un articolo - perché si, lavoravo in un giornale - era troppo piccolo per essere letto, e a quel punto si testa il tuo livello di “obbedienza cieca”, ordinandoti di farlo ancora più piccolo e, appena eseguito il comando, ti si chiede di riportarlo alla grandezza standard. Non devi pensare… e sì che nella mia professione pensare è importante, è importante l’esperienza e il dialogo con i colleghi. 

VOCE1
Spesso mi veniva chiesto dal superiore di non pensare che tanto non serviva. Ho passato 13 anni a essere il braccio, il monitor, il mouse di qualcun altro e a fare sopratutto cose inutili e incompatibili con il mio vero lavoro. Semmai avessi avuto un’idea questa non sarebbe stata presa in considerazione, oppure sarebbe stata trasformata/rubata. Ho ricevuto insulti, minacce, percosse (sì anche quelle). Più volte ho chiesto una regolarizzazione e mi sono sempre sentito rispondere che ero “fortunato” ad avere uno stipendio. Credo che mi abbiano infine regolarizzato a causa della prematura “esclusione” di un mio collega grafico, Precario come me, molto più bravo di me, ma assai meno fortunato. 

VOCE2
Ti rendi conto che sei stata arruolata quando ti senti dire da un collega anziano “ti do un consiglio: qui dentro non dire mai è colpa mia” e chi te lo dice non è un lavativo che tira a campare, ma uno che per 1.000 euro al mese lavora dalle sei a mezzanotte per sei sere la settimana, uno che mette sempre e comunque tutta la sua passione nel lavoro che fa, uno che non fa un giorno di assenza neanche quando è malato, uno che, quando muore in un incidente tornando a casa dal lavoro, ti senti dire “siete stati fortunati perché se lui non moriva uno di voi sarebbe comunque saltato”. Non devi pensare, non devi assumerti responsabilità, non devi avere pietà, non devi rivendicare i tuoi diritti perché sennò “quella è la porta” e nonostante tutto ti reputi fortunata, sì fortunata, perché fuori c’è il deserto, c’è chi sta peggio di te, perché tu un lavoro ce l’hai, uno stipendio, un posto dove senti di fare qualcosa di utile. Tu hai una storia, una dignità, ma la vendi per pochi spiccioli, perché questa è la realtà, questa è la vita ti dici.

VOCE1
Nel tempo mi sono convinto che in fondo era il lavoro che meritavo e volevo, c’erano addirittura il pacco di Natale e la cena con il video aziendale a fine anno … wow, un sacco di cose belle.... Ho saputo solo da pochissimo che la mia azienda non è mai stata in salute. Era solo uno un "bizzarro desiderio" di potere da parte dei proprietari. Questo sfizio divenne un peso, io e i miei colleghi ci riducemmo ad essere una spesa elevata alla voce uscite nel bilancio. Di conseguenza stop a panettone e cotechino, stop a cene fantozziane sul cocuzzolo della montagna, stop agli investimenti, stop alla qualità (col tempo diventata assai scarsa). Il mio reparto in pochi mesi fu dimezzato e non fummo gli unici. L’idea che avremmo chiuso aleggiava e faceva chiasso. 

VOCE2
Poi arriva il giorno del rompete le righe, del tutti a casa, dello smarrimento generale, perché “ragazzi la festa è finita” e inizia il valzer della follia. Vedi aggirarsi nei luoghi familiari strani personaggi, sorridenti e amichevoli, ora ti si dice che la tua opinione è importante, che tutto cambierà vedrete. Ma non riesci ad essere contenta, senti che qualcosa scricchiola. Ti si chiede sempre di più, ma nello stesso tempo senti che la fine è annunciata, ineluttabile. Ti ritrovi a prendere parte a surreali riunioni motivazionali a cui sei invitata a partecipare, salvo poi, se manchi perché quel giorno sei di riposo, ritrovare una crocetta vicino al tuo nome, perché se non rinunci al giorno di riposo settimanale vuol dire che non ci tieni abbastanza. Ti ritrovi a lavorare come una forsennata per operazioni editoriali che hanno il sapore del "ti faccio scavare una buca perché poi posso fartela richiudere", ma intanto continui a sperare che le tue sensazioni siano sbagliate, ti confronti ossessivamente con i colleghi per convincerti che non è finita, che non è possibile che finisca così. Ti ritrovi a scioperare con il plauso della dirigenza per poi sentirti chiedere di firmare un documento in cui si dice che se l’azienda ha chiuso è colpa dei lavoratori che non hanno ben lavorato, perché se non firmi non ti concedo il licenziamento collettivo, che sarebbe la norma in questi casi. La colpa è tua e intanto scompare il tfr, ma la colpa è tua che “dai! Ma lo sapevate, non potevate non saperlo!”.

VOCE1
Poi è iniziata la guerra. Una guerra tra poveri, persa ovviamente da tutti. L’ho vissuta al margine, cercando di fare il possibile per non affondare dentro il nulla che avanzava. In quei sei mesi di super-NUOVO-lavoro prima della chiusura definitiva ho avuto problemi a relazionarmi anche con gli amici più cari. Ho creduto che Matrix, in qualche modo, fosse reale. 
L’azienda non c’è più da un anno. Io ho ricominciato ad essere un grafico. Studio, mi aggiorno, provo a reinserirmi nel mondo del lavoro, vado avanti. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose: una importante è che mi reputo un lavoratore serio, però mi è rimasta la percezione, purtroppo, che quello che faccio vale poco. 
Ma ci sto lavorando. Mai arrendersi!

VOCE2
Nonostante tutto quel lavoro l’ho veramente amato, nonostante tutto, ora che cammino nel deserto, sento la mancanza di quella lotta quotidiana e mi rendo conto che sì, questa è follia….