“Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe”. È un celebre verso di Brecht, mirabile sintesi delle vicende di quella generazione di intellettuali, dirigenti  e semplici militanti antifascisti che, fra gli anni venti e trenta del Novecento, si aggirò raminga per l’Europa e fra le due sponde dell’Atlantico, in fuga dai paesi in cui si erano affermate le tirannie di Mussolini e dei suoi sanguinari seguaci, a partire da Hitler. Ed è un verso che è stato citato ieri nel salone della Biblioteca del Senato, dove si è svolto un incontro convocato per ricordare, a un anno dalla scomparsa, la figura di Baldina Di Vittorio, figlia amatissima di Giuseppe, il grande sindacalista che più di ogni altro ha contribuito, a partire dal 1944, a ricreare la Cgil dopo gli anni della dittatura.

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Il verso è stato citato nel suo intervento da Silvia Berti, storica e – soprattutto in questo caso – figlia di Baldina. E certo ben descrive almeno i primi 25 anni della vita della stessa Baldina. Nata a Cerignola nel 1920, quale figlia primogenita di Giuseppe Di Vittorio e di Carolina Morra, all’età di due anni fu portata dai genitori a Bari. Qui la famiglia Di Vittorio andò a vivere all’interno della locale Camera del lavoro, di cui Di Vittorio era diventato segretario. Fu qui che la madre mise al mondo il secondogenito, Vindice, proprio mentre i fascisti assediavano a fucilate la sede della struttura sindacale. Nel 1926, quando ormai la dittatura mussoliniana era stata instaurata da un anno, la fuga avventurosa di Carolina con i figli piccoli dalla Puglia, in un carro di fieno, e poi dall’Italia.

Baldina dovette imparare, a sei anni, che cosa sono la clandestinità e l’esilio, a partire dalla capacità di memorizzare il suo nuovo nome (falso), Maria. Poi l’approdo in Unione Sovietica, dove il padre si era rifugiato, e la frequentazione delle scuole russe, a Mosca, negli anni in cui Di Vittorio era stato posto a capo del KrestIntern, l’internazionale contadina del movimento comunista. Poi ancora un nuovo trasferimento in Francia, dove il segretario del Partito comunista d’Italia (Pcd’I), Togliatti, aveva nel frattempo inviato Di Vittorio. Nel 1936, quando per le strade di Parigi esplode la gioia per la vittoria del Fronte Popolare, Baldina, già orfana della madre, ha 16 anni. Per un breve periodo le ansie della clandestinità sono superate. Ma poi il padre parte per la Spagna, a sostenere le Brigate Internazionali che, al fianco del legittimo governo repubblicano, tentano di sbarrare la strada all’insurrezione franchista.

Nel 1940, con l’invasione nazista della Francia, tutto torna a precipitare. Baldina conosce l’internamento nel campo di concentramento di Rieucros, dove sono rinchiuse donne antifasciste di mezza Europa. Poi ancora, grazie all’aiuto insperato dell’Alliance Israélite, un’organizzazione che operava per salvare gli ebrei dalle persecuzioni naziste, Baldina riesce a imbarcarsi a Marsiglia su un transatlantico in partenza per gli Usa. Qui, a New York, riabbraccia il suo compagno Giuseppe Berti, uno dei fondatori del Pcd’I. Lavora come operaia in una fabbrica di cosmetici di Helena Rubinstein, poi come impiegata all’Ẻcole libre des hautes études, l’Università fondata da grandi intellettuali francesi fuorusciti.

È solo alla fine del 1945 che Baldina può tornare in Italia assieme al marito e ricongiungersi con il padre e il fratello Vindice, che – durante la Resistenza – aveva combattuto valorosamente contro i nazisti in Francia. Ed è qui che comincia la seconda parte della vita di Baldina, che è stata rievocata ieri, nelle sue varie tappe, da Antonio Carioti, Emanuele Macaluso, Marisa Cinciari Rodano, Vito Antonio Leuzzi, Carlo Ghezzi, Umberto Ranieri e Valeria Fedeli. Baldina non sarà solo la figlia di Di Vittorio o la moglie di Berti, ma una dirigente del movimento operaio e democratico dotata, come ha sottolineato Macaluso, di una specifica autonomia di giudizio e di azione. Una dirigente che, prima nell’Unione donne italiane, in seguito quale deputata (1963-1968) e senatrice (1968-1972) del Pci, e infine nella Cgil, concentrò la propria attenzione, come hanno ricordato Marisa Cinciari Rodano e la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, sul rapporto fra donne e lavoro, ovvero sul profondo mutamento della società, a partire dalla famiglia, e su ciò che andava fatto per affrontare i problemi posti da tale, positivo, mutamento.

Dall’insieme degli interventi, come dal filmato della regista Chiara Cremaschi, significativamente intitolato “Baldina Di Vittorio, una vita normale”, proiettato all’inizio dell’incontro, è stata restituita la figura di una donna che, come ha osservato il moderatore Paolo Franchi, da un lato ha vissuto una vita evidentemente straordinaria; mentre, dall’altro, come sa chi ha avuto il privilegio di conoscerla, si è data e ha mantenuto doti di equilibrio, saggezza, determinazione, concretezza, lucidità e grande semplicità. Una donna, ancora, che è stata, da un lato, l’affettuosa madre di Silvia e dall’altro una di quelle personalità che hanno concorso a formare quella classe dirigente che ha costruito la nostra Repubblica, dalla lotta antifascista fino alle conquiste sindacali e democratiche degli anni settanta.

Ed è per questo – ecco il senso dell’incontro, riassunto da Valeria Fedeli – che figure come questa vanno studiate e la loro memoria, fattasi storia, va trasmessa alle nuove generazioni. Perché l’azione politica del presente, per potersi sviluppare positivamente, necessita di mantenere la consapevolezza delle proprie radici. “Oh, noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non potemmo essere gentili”. È un altro verso di Brecht, che compare più oltre nella stessa poesia citata all’inizio e intitolata “A coloro che verranno”. Ma Baldina, nonostante le asprezze e le amarezze della vita sua e di quelle dei suoi cari, seppe sempre essere gentile.

@Fernando_Liuzzi