È l’uomo del dialogo che sa anche dire di no. L’industriale “di successo” che ha saputo trasformare, in piena crisi, la sua azienda in una multinazionale mantenendo con una certa lungimiranza un rapporto dialettico ma civile con i sindacati. In questo, incarnando quasi alla lettera, per spirito e stile, il “modello bolognese” di relazioni industriali in aperta antitesi con quello emergente, “alla Marchionne” per intenderci.

Il ritratto di Alberto Vacchi, presidente degli industriali di Bologna, Modena e Ferrara che ha lanciato poche settimane fa la scalata al vertice di Confindustria è per certi aspetti spiazzante. Anche perché a farlo sono i dirigenti locali, i delegati e i dipendenti iscritti alla Fiom dell’Ima, il gruppo guidato dal primo candidato a scendere in campo per la guida di Viale dell’Astronomia. E anche perché le prime bordate sono arrivate proprio dagli industriali locali, che ne avevano criticato l’eccessiva apertura sui contratti di secondo livello.

La sua candidatura ha finito per spaccare Confindustria tra chi lo sostiene, come Luca Cordero di Montezemolo, e chi invece lo avversa, come i pezzi da novanta Giorgio Squinzi, Emma Marcegaglia e Luigi Abete. Alberto Vacchi dovrà vedersela con Vincenzo Boccia, ex presidente della piccola industria, Aurelio Regina, già presidente di Unindustria e Confindustria Lazio, e Marco Bonometti, presidente degli industriali di Brescia. Dalla prossima settimana, infatti, i saggi di Confindustria inizieranno le consultazioni territoriali che porteranno al Consiglio generale del 17 marzo dove i candidati che hanno ottenuto almeno il 20 per cento dei consensi ufficializzeranno candidatura e programmi.

Apprezzamenti, come detto, arrivano da parte sindacale. Dopo il segretario regionale della Fiom, Bruno Papignani, che ha avuto per lui parole di elogio, è il segretario dei metalmeccanici di Bologna, Alberto Monti a dire: “È una controparte affidabile, sa discutere nel merito delle cose. Con lui abbiamo avuto sempre relazioni adeguate”. E così, a sorpresa, il gioco delle parti si rovescia, anche se – avverte il coordinatore di fabbrica dei delegati della Fiom, Massimo D’Alessandro – “se qualcuno pensa che all’Ima ci sia una dirigenza che regala conquiste, si sbaglia. Tutte le conquiste le abbiamo ottenuto attraverso la trattativa”.  “Anche quando il confronto è stato duro, però, abbiamo trovato sempre una persona disponibile e ragionevole. Una controparte che si è dimostrata capace di un grande ascolto”. “Certo è sempre un padrone, Vacchi - osserva un altro delegato, Moreno Baldassarri -. Ma ci sono padroni e padroni. Lui appartiene al genere di industriali corretti, con cui è possibile dialogare”.

“È un industriale che non usa la tattica, parla in modo schietto e sa dire anche di no. Quello che mi ha colpito è che sa guardare i problemi in prospettiva per trovare una soluzione. Diciamo, ecco, che è uno che ha una visione lungimirante”, spiega Massimo Valicelli, della Fiom di Bologna. La Fiom ha in fabbrica nel perimetro storico dell’azienda il 35 % degli iscritti e ha ottenuto alle ultime elezioni di fabbrica l’85% dei consensi. Tra i delegati, 18 su 22 sono metalmeccanici della Cgil. Un’egemonia che si è radicata a partire dalla nascita della società, all’inizio degli anni settanta. L’ultimo sciopero risale a metà degli anni ’90. L’azienda annunciò – a causa della crisi che incombeva – decine di esuberi. Alla fine, dopo un serrato confronto, non fu licenziato nessuno e con quell’accordo sindacale fu messa la prima pietra per un’ascesa dell’azienda, divenuta incessante negli ultimi anni.

L'Ima, da azienda che produceva macchine per imbustare il tè, è diventata una multinazionale da 850 milioni di euro di fatturato, con stabilimenti in mezza Europa, Stati Uniti, India e Cina; è leader mondiale del macchine da packaging per la farmaceutica, i cosmetici, l’alimentare. Testa e cuore, però, sono saldamente a Ozzano dell’Emilia (Bologna) con più della metà dei 4.600 dipendenti, e condizioni economiche per i lavoratori altissime anche per la media dell’aziende bolognesi. Uno sprovveduto, come malignamente accusa qualcuno? “Tutt’altro. È una persona anche astuta, capace, se vuole, di usare i trucchi del mestiere. Ha capito, con lungimiranza, che un rapporto diretto con i lavoratori può essere la chiave di volta per innovare e stare a passo con le sfide che arrivano dalla globalizzazione”, raccontano in fabbrica. “Nelle discussioni di merito, abbiamo risposto sempre con grande responsabilità – riprende D’Alessandro – e questo spiega perché alla fine questa azienda è cresciuta”.

Un esempio? Dal 2007 le Rsu possono disporre del 30% del budget per la formazione. “Ebbene, qui, per un tacito accordo, condividiamo tutte le scelte formative, assicurando corsi all’altezza e di qualità. In cambio, i lavoratori sono disposti a volte a fare gli straordinari, se serve, rinunciando volontariamente anche a qualche feria”. Una scelta di responsabilità che è contraccambiata.  Pochi sanno, ad esempio, che prima di formalizzare la sua candidatura alla presidenza di Confindustria, Alberto Vacchi riunì il Consiglio di fabbrica ancora prima dei quadri aziendali. “Gli dicemmo apertamente che non eravamo d’accordo con la sua discesa in campo – spiega ridendo Baldassarri –. Il nostro timore è che in quel ‘nido di vespe’, una persona così finisca per essere inghiottito nelle logiche imposte dai falchi”.

È sempre Vacchi a chiedere di incontrare il leader dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini. “Fu un incontro privato di una quarantina di minuti, con tutti noi che aspettavamo all’esterno. Cosa si siano detti nessuno lo sa”. Vacchi “landiniano”? “Queste sono le cose che scrivono i giornali, ma non lo è nemmeno per sogno – racconta ancora Baldassarri –. È un moderato che probabilmente ha guardato con interesse alle esperienza dei primi governi di centro sinistra, sicuramente tutt’altro genere rispetto a molti industriali anche di queste parti. Penso ci sia in lui della curiosità, ma da qui ad essere landiniano ce ne passa”.

I lavoratori sottolineano anche una certa umanità nei rapporti. “È una persona, molto attenta ed educata – sottolinea Marina Melotti, addetta alla portineria da molti anni in fabbrica –, nello stile della famiglia. L’impressione è che abbiano compreso con intelligenza che la forza, la vera forza di un’azienda sta anche in quelli che ci lavorano”. Ha qualche chance di vittoria? “Non lo so, ma penso che sarebbe positivo per i lavoratori italiani, un presidente di Confindustria che crede nel dialogo”.