Qual è oggi il rapporto tra la politica e il lavoro? Il lavoro in questi anni è diventato sempre più un fatto privato, particolare: nient'altro che lo strumento dal quale il singolo trae la propria sussistenza. Sembra quasi ovvio che sia così, invece questo è solo un modo di vedere il lavoro, fortemente sostenuto dai poteri dominanti, ma in contrasto aperto con lo spirito e la lettera della nostra Carta Costituzionale. Quest'ultima considera infatti il lavoro un fatto politico, addirittura un elemento fondativo della legittimità del nostro coesistere.

Il lavoro è al tempo stesso generale, perché è il fondamento della politica, e parziale perché è uno dei molti modi nei quali si esprime la vita associata. Quindi una rappresentanza diretta del lavoro, il sindacato, non può avere un valore politico universale. Nel modello di democrazia previsto dalla nostra Costituzione, il lavoro - pur avendo un valore fondativo - entra nel Parlamento, e quindi nella politica, non direttamente, ma attraverso l'elaborazione e la rappresentanza universale che ne fanno i partiti. Il ruolo dei partiti quindi è fondamentale: se non c'è il partito, tutto cade.

Poiché i partiti negli ultimi trent'anni sono stati distrutti (e si sono autodistrutti), questo ha prodotto problemi devastanti sulla legittimazione stessa del Parlamento: in assenza di partiti, i cittadini fanno molta fatica a capire a che cosa serva un Parlamento ridotto ad essere l'insieme di coloro che premono dei bottoni al comando del potere esecutivo, ogni tanto tentando (riuscendoci raramente) di correggerne gli input. L'assenza dei partiti ha fatto sì che dalla centralità del Parlamento si sia passati alla centralità del Governo, e, inoltre, che la rappresentanza politica del lavoro sia scomparsa (in parallelo, anche la rappresentanza sindacale del lavoro si è molto indebolita, come vedremo fra un attimo).

Perché tutto ciò è avvenuto? Perché dopo avere perduto una battaglia nel passaggio fra gli anni Sessanta e Settanta, il capitale ha reimpostato la sua strategia, uscendo dal modello keynesiano, e ha vinto la guerra. Compiendo una vera e propria rivoluzione, i cui obiettivi erano: verticalizzazione del potere e sua concentrazione negli Esecutivi, privatizzazione del lavoro, distruzione del potere politico dei sindacati, delegittimazione radicale della forma-partito, e trasformazione del concetto di rappresentanza della sfera pubblica, tipico della democrazia moderna, nel concetto di virtualità, cioè di rappresentazione mediatica. I centri di potere reali diventano così sempre più difficili da individuare e da costringere a manifestarsi. Senza fare alcun esercizio di “complottismo”, si può affermare che oggi le più importanti strutture della vita politica ed economica internazionale sono segrete o agiscono in modo segreto. La concentrazione del potere si accompagna così alla scomparsa della visibilità del potere.

Questo è un problema anche per il sindacato, perché il sindacato ha particolarmente bisogno di controparti che siano visibili, dato che deve esercitare la sua rappresentanza non nell'astrazione come fa il Parlamento, dove si lavora e si ragiona “in generale”, ma in un universo fatto di concretezza e di particolarità. Invece oggi assistiamo allo svanire di soggettività imprenditoriali forti e, comunque sia, al fatto che esse possono sempre appellarsi ad esigenze superiori che le trascendono. Fino ad arrivare alla fenomenale affermazione di Marchionne, che è giunto a chiamare in causa nientemeno che quello che nel pensiero dialettico è “lo spirito del tempo”, sostenendo: io posso anche essere in disaccordo con quello che sta capitando, ma sono sostanzialmente costretto ad adeguarmi ad un sistema che oggi è invincibile e che condannerebbe ad essere fuori dal mercato chi tenesse comportamenti difformi.

Il mestiere del sindacato diventa più difficile se cerca di unire quello che oggi marcia diviso, cioè l'universale e il particolare, ovvero la condotta sindacale in senso stretto, rivendicativa e particolare, e l'orizzonte politico di queste rivendicazioni, che dovrebbe essere gestito dai partiti i quali invece non ne sono più capaci, così che il sindacato è esposto alla tentazione e all'esigenza di assumere un ruolo politico (tutto da pensare, in realtà). Un sindacato tutto schiacciato sulla contingenza, sull'emergenza, sulle problematiche quotidiane fa certo il suo mestiere, perché non potrebbe mai prescindere da queste dimensioni, ma spesso non si trova più davanti qualcuno che gli si dichiari davvero antagonista: i suoi antagonisti sono piuttosto strutture, coazioni, procedure sempre più impersonali.

Lo scopo del sindacato (ma anche quello della politica) è governare i processi, far sì che la vita degli esseri umani non scorra all'interno di una specie di stato di natura, dove capitano solo cose che non si capiscono. Ma se sfugge il quadro complessivo, la dimensione politica universale, si è come un idraulico che deve correre affannosamente a chiudere rubinetti che perdono senza sapere né come è fatta la casa né come funziona l'impianto idrico. In realtà, il sindacato dovrebbe fare l'esatto contrario: saper lavorare sul problema concreto e al tempo stesso trovare il linguaggio per tradurlo in un discorso generale. Un linguaggio nuovo, che non può più essere quello fissato e cristallizzato ai tempi in cui questa operazione riusciva un po' più facile, un linguaggio che oggi sembra stereotipo, morto, secco, inerte, sbaragliato da nuove forme comunicative.

Il sindacalista, come chiunque a questo mondo, deve apprendere continuamente: se non apprende e' morto! Ma il sindacalista deve anche insegnare, cioè deve essere capace di spiegare le connessioni che esistono tra i problemi quotidiani contro i quali confligge (il rubinetto che perde) e i temi economici, sociali, organizzativi di dimensione sempre più vasta. Per spiegare queste connessioni il sindacalista deve prima di tutto conoscerle: questo sarebbe il vero agire in controtendenza! Perché in fondo la soluzione dei problemi concreti si trova capendo, e facendo capire, quanto e come quei problemi siano parte di un problema più grande, di carattere generale. Altrimenti saremo sempre sulla difensiva. E stando solo in difesa si possono anche fare delle ottime cose, ma in definitiva non si vince mai.

* Politologo, presidente della Fondazione Gramsci di Bologna