Dal 1° gennaio 2015, i 309.000 dipendenti delle banche italiane si trovano senza contratto nazionale. Pronti alla mobilitazione sono anche i 37.000 lavoratori delle banche di credito cooperative, dopo che Federcasse non ha rinnovato gli accordi di secondo livello. Cosa succede alla contrattazione del settore? Se ne è occupata 'Italia Parla' di stamattina, la trasmissione di RadioArticolo1 che sull'argomento ha interpellato Agostino Megale, segretario generale della Fisac Cgil (ascolta il podcast integrale).

"Siamo di fronte a due fatti di estrema gravità – ha esordito il dirigente sindacale –: il primo, che Abi ha ripetutamente disdettato il contratto, scaduto il 31 dicembre, per poi comunicare per lettera che comunque dal 1° aprile, in assenza del rinnovo, il ccnl non esisterà più. Tale atteggiamento trova in parte riscontro analogo nelle stesse bcc, per quanto riguarda la disapplicazione degli accordi territoriali dal 1° febbraio. Nell'ultimo incontro con Abi sono emerse pregiudiziali sul costo del lavoro, in particolare su scatti di anzianità e tfr, oltre alla negazione da parte della controparte di aumenti legati alla tutela del potere d'acquisto reale, ma anche su temi dell'area contrattuale, dove 60.000 persone rischiano il posto. Perciò, le trattative si sono interrotte e attraverso una campagna di assemblee stiamo lanciando lo sciopero generale di categoria organizzato per il 30 gennaio, che vedrà una risposta straordinaria di partecipazione, come già avvenuto in occasione dell'agitazione del 31 ottobre. Il nostro obiettivo è quello di riconquistare il contratto e far fallire le operazioni di Abi e delle altre controparti tese in fondo a usare una sponda politica che vuol mettere in discussione il ruolo del sindacato per far saltare proprio i contratti nazionali di lavoro". 

In merito alle dichiarazioni del vicepresidente di Abi, Alessandro Profumo, che ha accusato i sindacati di aver lasciato il tavolo negoziale, dando sostanzialmente alle parti sociali tre mesi di tempo per continuare a trattare, Megale ha ricordato che "per la prima volta si determinano fattori e situazioni eccezionali: vi è una crisi che sta entrando nell'ottavo anno, che non ha paragoni neanche con il '29, dove i tassi di disoccupazione sono i più alti dal dopoguerra ad oggi, sia per quanto riguarda i giovani che per quanto attiene alle dinamiche occupazionali. Inoltre, non si è mai determinata una condizione politica per cui un governo di centrosinistra apre un conflitto con il suo corpo sociale, cioè lavoro e sindacato, e perciò mette in discussione il ruolo di confederali e contratti nazionali, privilegiando la dimensione dei contratti aziendali. Questo vale per Abi, ma anche per Confindustria, che pensa a una sorta di contrattazione optional, dove secondo le necessità uso il contratto o la contrattazione: per noi, hanno parimenti valenza e valore. Il contratto nazionale ha la funzione di tutelare il potere d'acquisto dall'inflazione reale, governando tutte le dinamiche che attengono all'area contrattuale, che altrimenti diventerebbe una sorta di Far west. Modificheremo la posizione di Abi? La finalità dello sciopero è questa". 

L'esponente della Cgil ha poi ripercorso la storia delle relazioni sindacali del mondo bancario. "Quella nostra è  una storia importante, fatta di concertazione, con una governance delle parti in grado di garantire soluzioni equilibrate dei problemi. Indubbiamente, la crisi che nasce proprio dal sistema della finanza americana e inglese alla fine colpisce paesi deboli come l'Italia, ad alto debito pubblico, dove anche i banchieri, incapaci di immaginare come se ne esce, alla fine, di fronte alla casa che brucia, pensano che la soluzione sia quella di colpire il lavoro, mettendo in discussione le architravi delle relazioni, ovvero i contratti nazionali. Quei dirigenti commettono un errore e manifestano una forte miopia: bisogna correggerla, perché le relazioni industriali, capaci di difendere beni comuni come il ccnl e la contrattazione, continuano ad avere un valore in quanto sono portatori di soluzioni, anche magari dopo un conflitto. Auspico che ciò sia possibile anche stavolta". 

Sul crollo delle borse europee, il commento di Megale è che "il mercato continua a dire che il credito italiano, pur presentando caratteristiche di maggiore solidità, richiederebbe nel suo insieme un'operazione di politica economica e industriale che sin qui non si è vista. In sostanza, tutto è stato delegato a Bce e Ue. È sufficiente che il petrolio scenda a 55 dollari al barile e che l'euro sia a 1,1 con il dollaro perché lo scenario del Pil cambi completamente; tant'è, che solo questi due dati dovrebbero portare quest'anno a una crescita attorno all'1% rispetto allo 0,3 del 2014. Quindi, il nostro settore è direttamente legato a tali dinamiche, e le azioni delle borse agiscono in dipendenza di queste variabili generali, intervenendo su uno dei punti più deboli, che è proprio il sistema delle banche, specie di quelle più a rischio, in attesa di soluzioni non ancora definitivamente in campo, come invece sarebbe necessario". 

Infine, il giudizio della Fisac sul recente accordo per il credito 2014. "Questo significa che Abi prevede la possibilità per le imprese di sospendere per dodici mesi il pagamento della quota capitale delle rate dei mutui di leasing, di allungare la durata dei mutui e quelle delle anticipazioni bancarie e del credito agrario di conduzione. Sono misure non sufficienti ad aiutare la ripresa economica del settore. Continuano a mancare più di 50 miliardi di investimenti. Il che vuol dire che l'erogazione del credito si è ridotta di tale entità. Se sommiamo i dati, negli ultimi sei anni mancano 300 miliardi. Se poi vediamo la dinamica degli investimenti esteri, si sono praticamente dimezzati. E non è neanche corretto imputare alle banche che erogano meno credito, perché paradossalmente la crescita delle sofferenze derivanti proprio da piccole e piccolissime imprese sottocapitalizzate, apre una condizione per cui quel 5% di credito mancante a volte sono le stesse imprese che non lo richiedono. Però, il risultato non cambia: senza investimenti non c'è crescita e senza crescita non c'è produzione di lavoro".

"Per invertire il trend attuale – ha concluso Megale – , bisogna avere una crescita superiore almeno al 2%, considerato il basso tasso di produttività del nostro Paese e i ritardi accumulati in alcuni settori in termini di innovazione. Mentre il governo ha scelto la strada del conflitto con il sindacato sui temi del lavoro e delle norme sul lavoro, purtroppo ci si renderà conto a breve che le regole non creano neanche mezzo posto di lavoro in più. Quel che serve è un grande patto sociale all'insegna della crescita. Investire, investire e ancora investire è l'unico modo per il nostro Paese per uscire dalla crisi".