In questi giorni Vittorio Foa avrebbe compiuto 100 anni. Nel commemorarlo ripubblichiamo un articolo di Andrea Ranieri, che lo ricordava quando era ancora acuta la commozione per la sua scomparsa.

La cosa più straordinaria dei giorni passati è stato cogliere, in quasi tutti quelli a cui veniva annunciata la morte di Vittorio Foa, un senso di sorpresa, quasi d’incredulità. Eppure era morto un uomo che aveva alla sue spalle quasi un secolo di vita, di cui tutti conoscevano le sempre più precarie condizioni di salute. Il fatto è che quell’uomo era stato per molti di noi un punto di riferimento fondamentale per pensare e immaginare il futuro, l’uomo che ti apriva prospettive nuove, anche quando tutte le strade sembravano bloccate, che produceva speranza quando il continuare a sperare sembrava una follia. Vittorio Foa, lo ha detto lui stesso, era un uomo che aveva nostalgia solo del futuro, e proprio per questo era così libero e nuovo nel riflettere sul passato e sul presente. Il suo futuro non era il mondo immaginato delle avanguardie, né quello a cui inesorabilmente ci condurrà un qualche determinismo economicista, di destra o di sinistra. Il suo futuro, il nostro futuro dipende dalle scelte che faremo, ma è da far crescere nel presente; non è un domani da aspettare, ma è da costruire qui e ora, cogliendo in ogni situazione le possibilità aperte.

Perché, per Vittorio, la storia siamo davvero noi, un noi grande, che accoglie infinite diversità di idee, di culture, di popoli. E da questo grande noi può scaturire ogni giorno l’impensabile, quello che chi legge il mondo solo attraverso i numeri, le statistiche, le macrograndezze economiche – che pure Vittorio, finché ha potuto ha puntualmente studiato – non riesce nemmeno a immaginare. È significativo come conclude il suo bel dialogo con Guglielmo Epifani sui cent’anni del sindacato: “Oltre alla fiducia nella nostre forze, possiamo e dobbiamo guardare con fiducia alle forze del lavoro altrui. Noi parliamo molto della Cina e dei suoi aspetti preoccupanti. Ma possiamo pensare anche ai cinesi. E pensare che possono avvenire anche altre cose, diverse,impensate. Non è sicuro. Ma se avvengono, avverranno perché ci sono i cinesi, non solo perché c’è la Cina”. Finché ci sono i lavoratori, finché il futuro del mondo è segnato dalle menti e dalle braccia delle donne e degli uomini che lavorano, quello che appare impensabile è possibile, la speranza ha un luogo solido in cui collocarsi. È questa la base dell’ottimismo etico, il suo rifiuto dei pessimismi di varia natura, di quelli che rifiutano il cambiamento perché il mondo non cambia come loro avevano deciso che dovesse cambiare.

Anche per questi motivi Vittorio fu soprattutto un sindacalista. Perché il sindacato, il buon sindacato, ti costringe a vedere le idee nelle facce degli uomini, a non separare mai i progetti dalle concretezze del lavorare e del vivere. Un sindacato autonomo dalla politica, proprio per essere libero di leggere e rappresentare fuori da ogni schema e da ogni apriorismo, le dinamiche e i soggetti sociali, e proprio per questo in grado di parlare alla politica. Un sindacato che si propone sempre l’unità al di là delle contingenze e delle convenienze politiche, perché solo l’unità è in grado di sollecitare le speranze e il protagonismo dei lavoratori, l’autonomia che conta, quella che si esercita nei luoghi di lavoro. Autonomia e libertà sono le parole chiave della ricerca e dell’impegno sindacale e politico di Vittorio Foa. “La libertà – scrive in Passaggi – è al principio e alla fine di ogni processo di cambiamento. Al principio come presupposto della capacità dell’individuo di progettare; alla fine per garantire l’autonomia individuale e collettiva e farla fiorire”.

L’incontro con Trentin. Su questi contenuti – l’autonomia, la libertà, il futuro che sta dentro il presente e la concretezza dei processi – Foa incontrerà, nell’immediato dopoguerra, il giovane Bruno Trentin. In quel posto eccezionale che doveva essere l’ufficio studi della Cgil di quegli anni. Fornirono studi e argomenti al sindacato di Di Vittorio impegnato a ricostruire l’Italia, a difendere l’occupazione, a portare i salari ai livelli di sopravvivenza. Ma furono i primi a capire anche le difficoltà e le inadeguatezze di quel sindacato, la cui sacrosanta tensione morale, nazionale, di popolo era però incapace di leggere le trasformazioni concrete, le innovazioni del nostro tessuto produttivo e della stessa struttura sociale del paese. Si preparò in quell’ufficio studi la svolta del ’55, quando al direttivo della Cgil Di Vittorio pubblicamente denunciò le inadeguatezze di un sindacato grande e generoso a capire le forme nuove che assumeva la realtà della fabbrica, e che rischiava di lasciare senza rappresentanza effettiva proprio i lavoratori che nei processi innovativi erano più direttamente coinvolti. Né Foa, né Trentin furono mai inclini, anche negli anni del fordismo, a pensare i lavoratori come “operaio massa”. Anzi, s’impegnarono a trovare gli spazi di libertà e di autonomia anche dentro il fordismo, a portare alla luce l’intelligenza operaia indispensabile al funzionamento della stessa catena di montaggio più rigida. Negarono anche allora che ci fosse una “one best way” determinata dalla tecnologia, e insieme che il collettivismo forzato del fordismo fosse l’ingrediente più propizio a sovvertire i rapporti di forza e di potere.

Fu anche per questo che furono i più pronti a cogliere le opportunità che la crisi del fordismo, la nuova società degli individui, poteva aprire all’autonomia e alla libertà del lavoro. “Dopo le conquiste egualitarie degli anni sessanta – scrisse Foa nel 1991 –, dopo quelle grandi inclusioni, ci si è presto accorti della crescente area degli esclusi, del lavoro precario e parziale non protetto, del nuovo disagio giovanile, delle migrazioni, delle nuove povertà. Mi sono allora reso conto che il ciclo inclusione-esclusione non funzionava più, che non si trattava più di dare il via a una nuova lotta per l’inclusione: quello che sembrava proporsi comeesclusione era una nuova modalità del lavoro e quindi anche una nuova idea dell’eguaglianza”. Nel 1989 Trentin, da segretario generale della Cgil, lanciò a Chianciano il sindacato dei diritti, che di questa nuova idea dell’uguaglianza è l’espressione più avanzata fino a oggi prodotta. Ho visto Vittorio e Bruno insieme per l’ultima volta in un giorno di marzo del 2006. Vittorio mi propose d’intervistare Bruno insieme a lui; di costringerlo quasi a un’autobiografia personale, intellettuale e politica che Bruno da solo non avrebbe mai scritto.

Di quel lavoro resta solo l’inizio, perché l’estate Bruno se lo portò via. Quel pomeriggio di lavoro lo trovate nel libro “Lavoro e libertà”, che raccoglie alcuni fra gli scritti più importanti di Trentin. Bruno, c’era da aspettarselo, sfugge al parlare di sé, e ci costringe a riflettere insieme sulla storia della sinistra e del sindacato e soprattutto sui passaggi, sui nodi irrisolti di quelle storie, che ancora parlano al presente e possono servire a progettare il futuro. In quei nodi e in quei passaggi, Foa e Trentin furono spesso in minoranza. Erano tempi di severe certezze, in cui sembrava su quelle certezze obbligatorio schierarsi.

Foa e Trentin con la loro curiosità, con la loro intelligenza , a quelli schieramenti sfuggirono. Trentin, sindacalista di sinistra, si oppose fieramente al punto unico di contingenza e agli aumenti uguali per tutti; entrambi videro nel referendum sulla scala mobile una pura e semplice “replica” all’attacco del governo all’autonomia del sindacato e come tale essa stessa lesiva della sua autonomia e della sua unità. Così come alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro opposero una possibile linea di riduzione articolata, capace di far vivere, in conflitto, ma anche in possibile sinergia, con la flessibilità delle imprese, la flessibilità e la diversità dei bisogni e dei desideri delle donne e degli uomini che lavorano. Entrambi videro nel sapere, nella ricerca, nella formazione, la nuova linea per tenere insieme, come disse Jacques Delors, competitività e coesione sociale.

E nel sapere videro le nuove potenzialità di libertà e d’uguaglianza, ma anche le nuove disuguaglianze che la centralità del sapere può portare con sé. Spesso in minoranza, ma ai problemi dell’oggi sono loro che più di ogni altro ci parlano. Ci dicono che è possibile entrare nella società degli individui, nel mondo vasto della globalizzazione e della crescente complessità, ricercando nel mondo nuovo le strade dell’autonomia, della libertà, dell’uguaglianza, senza rimpiangere un passato impossibile, e senza andare a ricercare nell’ideologia degli altri, nella libertà dei liberisti, le idee per far fronte al cambiamento. Ora che il vento cambia, che persino i più intelligenti dei pescecani di Wall Street ci invitano a tornare all’economia reale, quella delle cose e degli uomini, che sono sempre di più quelli che pensano che le nostre sciagure nascano dalla scissione fra economia e società, le loro parole, la loro ricerca, la loro storia, sono il lascito più prezioso per ridisegnare noi stessi, per continuare a sperare.

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