La multinazionali lasciano l’Italia. Se si guarda ai casi che sono drammaticamente esplosi negli ultimi mesi, si capisce che i motivi per andarsene possono essere molti.

L’Alcoa ha denunciato tra le ragioni del trasloco spese eccessive per l’energia, che costa mediamente in Italia il 35 per cento in più. I posti in bilico sono circa 2.000 tra la Sardegna e il Veneto. La multinazionale pretende certezze sui costi, e probabilmente rimarrà aperta per altri tre anni prima di andarsene in Arabia Saudita, dove ha progettato un nuovo stabilimento. In un recente incontro con il governo, la proprietà del gruppo ha accolto l’invito a procedere per sei mesi ad assicurare la continuità e la capacità produttiva dei propri impianti in Italia. Un caso ben diverso alla Omsa, dove saranno reintegrati 80 lavoratori, con ammortizzatori sociali a rotazione. L’azienda ha confermato la scelta di chiudere lo stabilimento di Faenza, in cui lavorano 400 persone, ma è stato raggiunto un accordo con i sindacati che permetterà la parziale ripresa della produzione, garantendo la possibilità di verificare le disponibilità a favorire l’insediamento di nuove attività a tutela dei livelli occupazionali.

Nota la vicenda che ha visto coinvolta la casa farmaceutica Glaxo, che ha intenzione di dismettere il settore delle neuroscienze e vuole chiudere la sua sede in Veneto, con 500 addetti tra ricercatori e rete esterna. Dopo un incontro con il governo, si è deciso di convocare entro un mese un tavolo tecnico che esamini le possibilità per il futuro del centro di ricerca. Ma i casi delle multinazionali in fuga dal nostro paese sono ancora tanti.

La Yamaha chiude a Lesmo, in Brianza, dove lavorano 66 tecnici e operai, per trasferire la fabbrica in Spagna. La Nokia, impresa finlandese del settore delle telecomunicazioni, intende dismettere i laboratori di Cinisello Balsamo (600 ricercatori), in provincia di Milano, per trasferirli a Dallas, negli Usa. La Videocon di Frosinone, in mano a una multinazionale indiana, ha già chiuso lo stabilimento, mandando a casa 1.200 lavoratori. Il gruppo russo Severstal, dopo un’esperienza lampo in Italia, ha ceduto la quota dell’acciaieria di Piombino a Lucchini e c’è incertezza sui livelli occupazionali: 2.000 lavoratori coinvolti solo nello stabilimento toscano, mentre per il sito di Trieste è già programmata la chiusura nel 2015.

La Akzo Nobel, multinazionale chimica, leader nella produzione di vernici, con 185 dipendenti, ha annunciato la chiusura dell’impianto di Fombio (in provincia di MIlano) entro la fine dell’anno ed è attualmente occupata dai lavoratori. Nella farmaceutica, il numero di imprese che sta chiudendo i centri di ricerca in Italia è impressionante, nonostante il nostro paese sia il quarto mercato mondiale nel settore: Pfizer, With, Merk, ma anche Bayer, Roche, Bracco, Nms di Nerviano, l’azienda leader nella ricerca oncologica, con 600 dipendenti. Senza contare i 300 in mobilità alla Marvecs e i 350 in procedura fallimentare alla Xfarma.

E poi ci sono le multinazonali di casa nostra: la Fiat ha già annunciato la chiusura di Termini Imerese, dove lavorano 2.000 dipendenti, mentre il governo ha fatto sapere in questi giorni che 15 imprese sarebbero interessate a rilevarne lo stabilimento. Pochi però ci credono, a cominicare dai lavoratori siciliani. Non meno importanti sono le aziende che almeno formalmente non sono più italiane, perché controllate da misteriosi fondi esteri. È il caso dell’Agile, ex Eutelia, con 3.000 occupati, e della Phonemedia, 8.000 addetti. Le due aziende, i cui lavoratori sono senza stipendio da sette mesi, dipendono dalla Omega, società con un euro di capitale sociale, che è per molti una struttura di comodo su cui convogliare debiti e personale da licenziare. Lo scorso 16 febbraio il procuratore aggiunto Francesco Greco e il pm Sergio Spadaro hanno chiesto al tribunale di Milano il fallimento della società Libeccio, la holding che controlla il gruppo Omega.

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