Doveva essere tutto perfetto. Ma come si dice, la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri piani. Un’altra cosa che si dice è che “quando c’è la salute, c’è tutto”, e anche questo è vero. Quando abbiamo deciso, a maggio dello scorso anno, che nostra figlia sarebbe nata in Calabria (pur vivendo a Roma) qualcuno ha capito, altri invece sono rimasti stupiti. Credo di essere stata una delle pochissime persone tornate in Calabria per un motivo sanitario. Neanche la vicenda della giovane donna morta dopo il parto a Cetraro, in provincia di Cosenza, mi aveva distolta.

Abbiamo preso tutte le informazioni necessarie, trovato una ginecologa sul posto e organizzato la visita al reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale Annunziata. E’ stato come avvistare un’oasi nel deserto. Stanze colorate, sale parto accoglienti, ostetriche sorridenti, disegni alle pareti, l’epidurale gratuita. Fuori dal reparto, una struttura fatiscente. Mi hanno spiegato che, a differenza dell’Ospedale, il reparto di Ginecologia era nuovo, all’avanguardia, che si stavano preparando ad ampliarlo per via del numero elevato di parti effettuati. Solo più tardi avrei capito il senso profondo di questa affermazione. Per capirlo devi essere ricoverata, come me, una settimana prima del parto, per complicanze della gravidanza. Devi stare in una stanza per tre, con un quarto letto per le emergenze puntualmente occupato da una gestante fissa. Devi fare il travaglio in mezzo a una corsia piena di parenti e pasticcini alle mandorle. Devi premere un pulsante per ore e implorare, sopportare il mercato “nero” delle sedie sdraio.

Il reparto di Ginecologia dell’Ospedale di Cosenza è una Ferrari, guidata come una Cinquecento. Una struttura che sulla carta avrebbe tutto, dai macchinari al personale, per essere un’eccellenza. Ma crolla sotto il peso di un’affluenza spropositata. Decine e decine di donne, ogni giorno, arrivano in quell’ospedale per partorire, perché nella cittadina o nel borgo in cui vivono non c’è un presidio sanitario più vicino, o non è efficiente. Gli ospedali nei piccoli centri sono stati chiusi per i tagli lineari alla sanità territoriale. Questo spinge all’esodo verso Cosenza centinaia di gestanti, spesso con il rischio di arrivare tardi o di innescare complicanze nel parto.

La mia storia non finisce qui. Mentre aspettavo di partorire, nel reparto di neurologia al piano inferiore, era ricoverata mia madre. Un ictus, causato dall’interferenza di un farmaco per la nevralgia del trigemino con la terapia anticoagulante. Sul bugiardino c’era scritto che le due cose non potevano stare insieme, ma il neurologo continuava a rassicurarci sul fatto che i due farmaci avrebbero dovuto “imparare a convivere”. Ma intanto l’indice Inr scendeva, e alla fine siamo stati noi a imparare a convivere con un'altra cosa. Quello stesso neurologo, di turno al reparto quando mia madre arrivò con l’ambulanza, disse di non averla mai vista prima. In circostanze simili, da congiunto, ci sono solo due cose che puoi fare: urlargli addosso, o mantenere la calma e la lucidità. Sono due doti di cui devi avere buone riserve, perché durante un ricovero lungo e faticoso dovrai attingervi spesso. Ogni volta che riceverai una risposta vaga, o vedrai la persona che assisti trattata con sufficienza. In ogni occasione in cui sarai tu a fare la diagnosi di un disturbo e suggerirla al dottore.

Per chi va incontro a un evento acuto come un ictus, dopo la stabilizzazione in ospedale si pone il problema della riabilitazione in una struttura di lungodegenza. Davanti al paziente e alla famiglia ci sono mesi, anni di ricoveri, day hospital, terapie sperimentali. Cominciano le telefonate, la ricerca spasmodica di informazioni e di case in affitto. Pur rimanendo in Calabria, nel nostro caso, l’unico posto davvero valido in cui trasferire mia madre era l’Istituto Sant’Anna, a Crotone. L’eccellenza delle cure a 108 chilometri da casa. La mia famiglia si è trasferita e ha affittato un appartamento per un lungo periodo. Ognuno di noi ha cercato di darsi il cambio ed essere presente il più possibile, pur abitando in regioni diverse. Io ho fatto su e giù come potevo, con una bambina di pochi mesi.

Ma i cicli di ricovero hanno un tempo limitato. Terminato uno, bisogna pensare a quello successivo ed è a quel punto che le alternative cominciano a mancare nel raggio di diversi chilometri. Le cliniche per la riabilitazione post evento acuto ci sono, anche vicino casa. Ma le “recensioni” non sono delle migliori. La domanda è sempre la stessa: qual è il meglio che possiamo trovare? Così, non resta che uscire dalla Calabria e guardare oltre. Roma, Milano, Monza, Torino. Mesi di attese, telefonate a vuoto, domande senza risposta. Poi, tutto cambia in meno di un giorno. Di nuovo, la vita è quello che ti capita mentre sei occupato a fare altri piani. Di nuovo saluti, partenze, case in affitto, spese impreviste. Una nuova, vecchia, routine. La pratica quotidiana di chi è costretto a curarsi fuori. Tra simili ci si riconosce a un solo sguardo, nella sala d’attesa o al bar. Lo stesso sorriso stanco, quasi una complicità. Troppi gelati in vaschetta per festeggiare compleanni nella mensa, troppe vigilie condivise nella pizzeria accanto. Panni sporchi da riportare puliti, letti sfatti, giornate senza fare niente mentre stai facendo tutto. Si crea qualcosa che non si può chiamare amicizia, un’intimità nata da un’esperienza che nessun’altro può capire. Forse non è un caso che per definire chi si ammala usiamo la parola “paziente”. Di pazienza, per curarsi, ce ne vuole parecchia. Soprattutto al Sud.