“Siamo il Paese più franoso d’Europa, abbiamo un territorio fragilissimo, sia sulle coste sia nell’entroterra e sulle montagne. E questo lo vediamo ogni anno in autunno, a volte anche in estate: i fiumi straripano, le frane cadono e travolgono case, cose, persone”. Salvatore Settis archeologo, storico dell’arte, accademico e studioso, si batte da anni contro il consumo di suolo, per ridurlo e contenerlo, convinto che solo usando meglio la nostra terra, risparmiandole opere inutili e spesso dannose, possiamo salvarla. Perché la tutela del paesaggio non è in conflitto con l’occupazione e lo sviluppo economico, anzi: questa falsa contrapposizione legittima e giustifica i 57 chilometri quadrati che abbiamo consumato nel 2019, i 23 mila chilometri quadrati divorati dal cemento negli anni 1950-2016, pari al 7,64 per cento della superficie del Paese, più o meno quanto la Lombardia (dati Ispra). Un fenomeno che, appunto, ci ha reso molto vulnerabili: secondo il Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici, il 91 per cento dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, sette milioni di persone vivono o lavorano in aree definite ad “alta pericolosità”.

Professor Settis, i cantieri danno lavoro a tante persone e questo è uno dei motivi per cui si continua a costruire. Quali sono le politiche delle infrastrutture che possono essere positive per l’Italia?

La priorità massima è la messa in sicurezza del territorio. Questa è la vera grande opera di cui ha bisogno l’Italia, una politica delle infrastrutture che non sia separata dalla tutela del territorio, che oggi è abbandonato e senza tutele. E non sono solo io ad affermarlo, con me ci sono anche le associazioni dei costruttori: la disoccupazione nel settore dell’edilizia si può risolvere in parte con opere di messa in sicurezza. Quando si parla della necessità di grandi opere si deve sempre tenere conto della fragilità del territorio. C’è questa convinzione malata per cui bisogna sempre costruire nuove strade, nuove vie di comunicazione, ma anche quando si decide e si procede, occorre farlo con attenzione.

Quali fattori bisogna tenere in considerazione?

Prenda la linea ferroviaria ad alta velocità Firenze-Bologna su cui sto viaggiando in questo momento. Ha dei meriti indubbi perché ha ridotto i tempi di percorrenza, ma si poteva fare meglio. Nel costruirla è stato alterato l’assetto idrogeologico, si sono scavate gallerie che hanno incrociato falde acquifere che a loro volta alimentavano torrenti, con una funzione fondamentale nell’equilibrio ecologico di un’area.  Se questo equilibrio è stato rotto, se il torrente che rendeva fertile una valle non scorre più, allora abbiamo provocato conseguenze economiche che nel progetto originario non erano calcolate. Inoltre, da un’inchiesta pubblicata dal Corriere della sera è emerso che un chilometro di questa linea è costata il quadruplo della stessa linea realizzata in Francia. Troppo, troppi interessi.

Ci sta dicendo che le opere vengono progettate senza tenere conto dei territori che attraversano?

È così. Ragioniamo a compartimenti stagni: se facciamo infrastrutture, è come se le realizzassimo sulla luna, mentre il nostro territorio ha flora, fauna, insediamenti umani, agricoltura, tutti fattori che andrebbero accuratamente studiati prima di agire perché si sa che li mettiamo a rischio. C’è questa convinzione per cui le infrastrutture sono il motore dell’economia, ma volete sapere qual è la principale vittima? L’agricoltura: le infrastrutture incidono sulle pianure fertili e sulla nostra capacità di produzione alimentare. Quando si fa un'autostrada, non si calcola il valore economico del suolo che non potremo più coltivare. E invece bisognerebbe misurare i costi e i benefici, i vantaggi e le perdite, compresa quella del terreno agricolo, che è per sempre. Poi ci sono il paesaggio e il patrimonio storico e artistico. In Veneto un’autostrada incrocia nel suo percorso le Ville Palladiane, opere architettoniche patrimonio dell'umanità, studiate in tutto il mondo. Insomma, occorre quantificare e valutare tutto, e solo dopo decidere di fare una strada solo se è davvero necessaria. 

Negli ultimi 30-40 anni ci sono stati un migliaio di morti a causa delle frane e delle alluvioni. Ma la forza della natura, come viene definita, spesso diventa distruttiva perché si abbatte su costruzioni erette dove è vietato o dove il buonsenso lo sconsiglierebbe.

Non c’è dubbio. E ci sono anche dei casi di scuola. Per esempio, sulla costa ligure, nella stessa periferia di Genova, case abbattute dalle alluvioni perché costruite dove non si dovrebbe. In Calabria un intero campeggio spazzato via dall’acqua perché allestito nel greto di una fiumara quasi sempre in secca. Tutti insediamenti abusivi. L’abusivismo è una delle piaghe dell’Italia che andrebbe sanata.

Professore, ci sono opere che andrebbero realizzate e altre che invece ritiene siano inutili?

Partiamo da un’opera utile: a 150 anni dall’unità d’Italia non è mai stata completata un’autostrada che colleghi la costa tirrenica a quella adriatica, per intenderci da Grosseto a Fano. Raggiungere le Marche dalla Toscana in treno è ugualmente un’impresa. Una linea ferrovia conferirebbe libertà di movimento ai cittadini. Tra quelle che non andrebbero fatte c’è l’autostrada che parte da Orte e finisce sull’Adriatico: a me sembra superflua, perché  quelle direttrici si potrebbero coprire collegando meglio autostrade e superstrade giù esistenti. Stessa soluzione per l’autostrada tirrenica che adesso si ferma a Rosignano e poi riprende a Civitavecchia: c’è già una bella superstrada, non è necessario ampliarla o costruirne una ex novo parallela.

Nel valutare gli impatti di un’opera spesso dimentichiamo le conseguenze dei cambiamenti climatici. A cosa ci porterà questa omissione?

Questo è un ulteriore elemento che non riusciamo a misurare con precisione. Abbiamo visto come il Mose, alla sua prima vera prova del nove l’altro giorno, abbia funzionato bene, ha protetto Venezia dall’acqua alta. Se però i dati degli scienziati sono giusti e ci sarà un innalzamento del livello del mare di 30 centimetri entro questo secolo, nel giro di ottanta anni questa opera sarà diventata inutile, perché non riuscirà a proteggere la città più a rischio di inondazioni del mondo.