“Il nostro obiettivo è la riqualificazione dell’intervento pubblico, il nostro quadro di riferimento è l’economia mista. La storia dello sviluppo economico italiano mostra l’interdipendenza tra pubblico e privato, ed è lì che dobbiamo insistere”. A indicarci la strada è Giuseppe Berta, 68 anni, torinese di nascita e milanese d’adozione, docente alla Bocconi di Milano e autore di studi capitali nel campo dell’industria e delle élite economiche. “In questo Paese il disegno della crescita si è andato inaridendo, e non da pochi anni”, prosegue lo studioso: “Il soggetto pubblico deve ricostituire un proprio sapere, riacquistare le competenze che non ha più. Insomma, qui bisogna reinventare tutto”.

Partiamo dalla più stretta attualità. La pandemia è stata uno spartiacque: ma tra cosa? Quale modello economico ci stiamo lasciando alle spalle?

Ho letto una metafora, in un articolo su Limes, che mi ha colpito: il coronavirus è stato come il ‘colpo di pistola di Sarajevo’. Ha diviso un prima e un dopo: in Occidente siamo passati da un ciclo quarantennale di prevalenza del mercato e dell’iniziativa privata, a una nuova e fortissima domanda di Stato, di protezione, d’intervento pubblico. In verità i segnali erano già intravedibili, perché in Italia non si è mai riusciti a realizzare un amalgama soddisfacente dei fattori economici. Il tentativo attuato alla fine del secolo scorso di creare un nuovo modello, da un lato più aperto all’internazionalizzazione, dall’altro più regolato attraverso la politica delle privatizzazioni, possiamo dire che ha fallito.

Lo “Stato imprenditore” si è accartocciato su di sé per l’incapacità di riformare l’impresa pubblica e per l’ingerenza della politica, lo “Stato regolatore” dell’economia ha fallito: allora, quale opzione ci resta?

L’Italia deve capire la lezione, approdando al lido dell’economia mista. Lo sviluppo economico italiano è stato segnato profondamente dall’interazione tra la mano pubblica e l’iniziativa privata: i segnali si vedono già nell’Ottocento, con la nascita della società siderurgica Terni, sostenuta appunto dallo Stato. Nel Novecento l’economia funziona intorno ai due poli pubblico e privato: una complementarietà che segna la storia italiana, che viene meno quando amputiamo, o quantomeno riduciamo fortemente, il polo pubblico.

Servirebbe, dunque, una “politica industriale” che sappia indicare i settori strategici, definire obiettivi, tempi di realizzazione e coperture finanziarie. Ma anche questa manca da tempo.

Da parecchi anni non leggo un documento governativo con queste indicazioni. Bisognerebbe dire, ad esempio, se l’Italia debba avere un forte apparato manifatturiero o meno, se dobbiamo continuare o no a produrre acciaio e automobili. Altri governi lo fanno, proprio di recente quelli tedesco e francese, mentre noi non entriamo nel merito delle cose: non c’è mai una scelta di politica industriale che, di conseguenza, ci porti poi a indicare specificamente cosa vogliamo.

Ma un Paese con la nostra storia, le nostre dimensioni, la nostra collocazione internazionale, può permettersi di tacere sulla struttura della propria economia?

Io sono cresciuto in un’altra epoca, porto con me questa visione di un’architettura forte. Ritengo che non sia un bene rinunciare ad alcuni capisaldi, come invece abbiamo fatto. La domanda che dobbiamo porci è: dentro l’Europa, quale posto vogliamo occupare? Per avere il posto che ci spetterebbe dovremmo presidiare produzioni e attività che sono in forte evoluzione, ma questo ci riporta al discorso di prima, a quando c’era un’economia mista più forte e più orientata.

La sensazione, però, è che nella nostra classe dirigente manchi proprio una “cultura di governo”…

Capacità di governo vuol dire darsi obiettivi credibili e raggiungibili in un tempo prestabilito, avendo le risorse finanziarie e di tipo organizzativo per realizzarli. Ecco, su quest’ultimo aspetto siamo fortemente deficitari: lo Stato, spogliandosi delle sue funzioni gestionali, ha anche abdicato al proprio sistema di competenze. Non abbiamo più valorizzato l’amministrazione pubblica, le sue capacità esecutiva e direzionale. Il compito dei prossimi anni sarà quello di ridare qualità, intelligenza, facoltà di giudizio e autonomia operativa alla pubblica amministrazione.

L’automotive è la plastica rappresentazione dell’assenza di una politica industriale. L’unico intervento di rilievo è stato il prestito a Fca, da parte dello Stato, per affrontare l’emergenza epidemiologica.

Un prestito di 6,3 miliardi di euro è molto grande, quindi è un provvedimento importante. Ma non si capisce perché l’operazione sia stata condotta come un fatto nazionale quando in realtà non lo è, visto che la guida del nuovo gruppo Stellantis sarà chiaramente francese. Questa poteva essere l’occasione per intavolare un confronto con Psa e con il governo francese che ne è azionista, ma l’esecutivo italiano non l’ha colta. E poi andrebbe discussa anche la direzione dell’intervento: si è guardato solo a Fca, ignorando la cospicua filiera dell’auto italiana che lavora per il sistema tedesco.

Cosa sarebbe stato più giusto fare?

Il nostro sistema dell’auto sarà sempre meno il produttore finale e sempre più l’aggregato delle filiere internazionali, quindi sarebbe stato opportuno investire risorse in entrambe le direzioni. Più in generale, se vogliamo essere presenti con una politica per l’auto rivolta all’Europa e al mondo, dobbiamo dotarci di una nostra proposta. Nel campo della mobilità sostenibile, del trasporto urbano e metropolitano, avremmo parecchie cose da dire, diverse soluzioni da avanzare, che devono però essere incentivate e sostenute. Ma di tutta questa discussione, che attiva anche il mondo sindacale, nelle carte del governo non vi è traccia.