Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Pci nel dopoguerra e presidente della Federazione sindacale mondiale. Una vita, quella di Giuseppe Di Vittorio, avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda, senza però mai perdere di vista i valori più preziosi: il lavoro e la democrazia. Se Togliatti è il capo della classe operaia, Di Vittorio è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro, in un riconoscimento trasversale e assoluto. “Lo volevano bene anche le pietre”, dicevano i suoi braccianti, ed è proprio questa l’immagine che Peppino ha sempre restituito: quella di una persona presente, empatica e attenta, dall’immensa personalità e carica umana. Un uomo, prima che un politico o un sindacalista, circondato da affetto vero, amato da familiari, compagni e lavoratori, stimato dagli stessi avversari come antagonista duro, ma leale.

Nell’agosto 1952 Di Vittorio compie sessant'anni. Un avvenimento importante, che i suoi festeggiano prima a Cerignola poi a La Spezia. Scrive Anita Contini nelle proprie memorie: “Il 3 agosto 1952, tutta Cerignola era in festa. Forse fu quella la più grande festa della città. Peppino, il bracciante, il cafone, ebbe manifestazioni straordinarie di affetto e di gratitudine da tutti i suoi concittadini e compagni di lotta. Regali simbolici: pane, cicoria, mandorle, olio, frutta  d’ogni genere e poi medaglie, pergamene, oggetti d’ornamento per la casa gli vennero offerti da delegazioni giunte da tutta la Puglia. Di Vittorio rispose a quell’infinito affetto con uno dei suoi più significativi discorsi, forse il più bello, il più semplice, il più umano”. 8 mila iscritti in 15 giorni in onore di Di Vittorio, scriveva l’Unità l’8 agosto, riportando quattro giorni dopo la lettera di auguri a lui indirizzata niente meno che da Palmiro Togliatti.

“Abbiamo fatto molta strada assieme, caro Di Vittorio - scriveva il Migliore - Assieme abbiamo lavorato, resistito, combattuto. Siamo stati alla scuola delle persecuzioni e dell’esilio, ma anche alla grande scuola del movimento operaio comunista internazionale ... Così abbiamo potuto conoscerci a vicenda ed io ho conosciuto in te, prima di tutto, il figlio devoto di quel popolo italiano, di cui provasti le sofferenze e di cui possiedi le grandi capacità di intelligenza e tenacia ... Saluto in te il militante proletario, artefice ostinato e capo della grande organizzazione unitaria degli operai e di tutti i lavoratori italiani. Saluto il dirigente comunista, temprato a tutte le prove. Saluto l’uomo semplice, che ha saputo non perdere mai il contatto diretto, di sentimento e di passione, di sdegno per le condizioni non umane di oggi e di speranza nell’avvenire, anche con il più povero e abbandonato dei lavoratori”.

“Quanti cuori protesi verso il mio! - diceva Peppino il 10 agosto davanti ai compagni di La Spezia che con un giorno d’anticipo festeggiavano il suo compleanno - Io non sarei stato nulla. Ragazzo bracciante semi-analfabeta, figlio di braccianti analfabeti, vivente in una società in grande maggioranza di analfabeti, certo nessuno avrebbe potuto pensare, senza il movimento operaio organizzato, che qualcuno da quella massa potesse emergere”. E Giuseppe Di Vittorio emerge, raggiungendo vette altissime. Dal primo comizio al funerale, sua la biografia consente una narrazione diversa degli avvenimenti storici dell’Italia dagli anni Venti agli anni Cinquanta, consentendo di raccontare in una forma squisitamente umana delle rappresaglie, degli eccidi, della disoccupazione, in generale del clima politico, economico e sociale di un’Italia che riesce a uscire da una dittatura e da una guerra devastanti in senso materiale e ancor più morale, e che però combatte e lotta, senza arrendersi, riconoscendo in Giuseppe Di Vittorio una guida sicura, da seguire e nella quale riporre fiducia. 

“Diecimila, ventimila persone? - si legge su l’Unità nel novembre 1957, anno della sua morte -. Impossibile fare un calcolo. Così come è impossibile descrivere il sentimento della gente, la commozione che era nel volto di tutti: Giorgio Amendola con gli occhi rossi di lacrime, Longo con le labbra serrate, Pajetta con lo sguardo annebbiato dal dolore, una donna vestita di scuro con le guance rigate da due lacrime accorate, un impiegato che aveva afferrato le mani di Lizzadri e singhiozzava come un bambino. Per ore e ore quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in Corso d’Italia, trasformato in camera ardente. Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio …. C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali … Tutti i negozi, lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso. Quando il carro funebre è giunto, verso le 17.40 al Piazzale delle scienze, una donna è giunta a toccare la bara e ha detto: Peppino, non te ne dovevi andare, abbiamo ancora tanto bisogno di te. La sua affettuosa parola sintetizzava i sentimenti della grande folla che lentamente si ammassava nel piazzale, caduta la sera, sotto la luce di potenti riflettori che illuminavano il palco eretto al fondo, le corone, le bandiere, i visi dei presenti”.
Peppino abbiamo ancora bisogno di te, in fondo tutti noi continuiamo a pensarlo.