Il locale Mille Lire evoca in me un senso di antico, moda e luoghi che pensavo scomparsi, e per questo mi stupisce solo parzialmente che sia in crisi. Quel sapore antico non cancella il fatto che il luogo, nel suo essere borderline, sia luogo di uso dei corpi femminili, di un “divertimento” che sfrutta.

La cronaca racconta di comportamenti dell’impresa la cui definizione di opacità è un benevolo eufemismo. Sfruttamento, dolo nei confronti di lavoratrici e lavoratori, retribuzioni e contributi non pagati, norme ambigue sui premi, l’approfittare delle norme inique del nostro Paese, sui e sulle migranti. A partire dalla legge Bossi-Fini, costruita per mantenere i migranti sotto ricatto, non riconoscendo certezze né dei percorsi lavorativi né della cittadinanza.

Le lavoratrici che si sono rivolte alla Cgil, giustamente si attendono di essere tutelate nei loro diritti, affermano il loro essere lavoratrici, la dignità del loro lavoro. Lo dice Nicola Atalmi nella sua intervista, lo afferma la lavoratrice nella sua testimonianza, che non lesina parole sul lavoro e sulla professionalità, sull’imparare e sull’impegno, e perché no, aggiungerei sulla fatica.

Quel mondo variegato che definiamo dello spettacolo, dell’intrattenimento, viene spesso guardato e giudicato con la lente dei pregiudizi e degli stereotipi. Tra i tanti stereotipi provo a individuarne due. Il primo quello classico, quasi romantico, del successo. L’attore, l’attrice, la ballerina o il cantante famosi e di successo, che ci si immagina conducano vite favolose. La descrizione del loro mondo, felice e dorato, nasconde la dimensione del lavoro e dei suoi problemi, cataloga tutti in una sorta di limbo che non vede differenze, molteplicità, fatiche, precarietà ed incertezze.

Ci è voluta la pandemia e molta fatica per far emergere che migliaia di persone non avevano lavoro e condizioni di sopravvivenza, nel momento in cui si chiudevano i luoghi di spettacolo e di intrattenimento; non viene compresa la discontinuità che caratterizza l’attività dello spettacolo, di un settore quasi privo di protezioni sociali. Non si è mai effettivamente affermata l’idea che la cultura, nelle sue infinite forme, è lavoro. É un’attività produttiva che crea spettacolo, cultura, intrattenimento, invece che manufatti o servizi.

Creare consapevolezza che dietro il “successo” c’è il lavoro, non determina di per sé la cancellazione del mito dei “vincenti e famosi”, ma significa collocarlo nella realtà del lavoro di molte e molti, della fatica collettiva che concorre al successo di pochi, ma determina l’esistenza di proposta e offerta culturale. Un lavoro che, come sempre, è fatto di dedizione, preparazione, fatica, aggiornamento capacità di misurarsi con il cambiamento e di confrontarsi con modelli imprenditoriali che puntano sulla generazione di profitto.

L’altro pregiudizio, su cui mi soffermo, riguarda lavoratrici e lavoratori per i quali vige il sottinteso, reale o immaginario, che siano sex workers. La definizione, di per sé corretta, viene attribuita spesso a prescindere, e comunque con tono giudicante. Troppi pensano che non sia lavoro, bollano tutto questo mondo come deviato e colpevole. In genere non si interrogano sul mercato che lo determina, ma giudicano chi ci lavora. Siccome lo condannano, in nome della loro morale, non riconoscono che sia lavoro e non si interrogano sulle caratteristiche e le condizioni.

Sembra banale dirlo ma lo stigma si accanisce in particolare sulle donne, e su tutto ciò che non si uniforma ai modelli stereotipati. Per questo penso sia importante, oltre che giusto, che le lavoratrici siano state accolte in Cgil, sulla base di quello che deve essere per noi il principio irrinunciabile: una persona che lavora ha diritti e tutele, deve avere un contratto e accesso alla contrattazione collettiva, ha diritto a rappresentare ed essere rappresentata. Ad ogni lavoro, cioè, va riconosciuta dignità e nessun pregiudizio può cancellarla.