Riccardo compirà 26 anni tra una settimana. E non lo avrebbe mai immaginato che questo 2020 sarebbe stato non solo l’anno della sua laurea in Scienze Storiche, ma anche quello dell’università chiusa per virus, delle biblioteche inarrivabili, degli archivi irraggiungibili. Riccardo vuole insegnare ma intanto va in bicicletta. Corre e sfreccia per le vie di Bologna, scampanella, si logga e si slogga. Una borsa termica sulle spalle, il cubo. E gli indirizzi della città che scorrono sul suo smartphone. È un rider. Lo fa per campare sperando di riuscire a costruire un futuro diverso. Il presente, diviso tra lo studio e gli ordini dell’app, oggi però fa i conti con il coronavirus.

Mentre le strade cittadine lentamente si spopolano e le case si riaccendono, lui e i suoi colleghi continuano a pedalare. Il senso della solitudine si acuisce davanti al numero dei contagi che sale ma, più ancora, davanti ai timori di un lavoro già precario e fortemente esposto. Sulla casella di posta elettronica della Riders Union di Bologna arrivano le email. Alcune app hanno iniziato a raccontare che gli ordini sono diminuiti e hanno fatto saltare alcuni turni. “Ma non è vero – commenta Riccardo – noi lo vediamo che è proprio il contrario. D’altro canto la gente sta a casa e non esce, così anche chi prima non lo faceva ordina cibo via app”.

Agitare lo spauracchio del lavoro che inizia a mancare è spesso la prima leva per sottrarre qualcosa a chi di lavoro ha bisogno. Ma oltre a questo aspetto, affatto secondario per i fattorini dell’era digitale, ce n’è un secondo tutt’altro che irrilevante. Tutte le app hanno pensato di affrontare l’emergenza lavandosene letteralmente le mani e scaricando tutto sulle spalle dei lavoratori, come se i "cubi" (gli zaini per le consegne, ndr) non fossero già abbastanza pesanti. Deliveroo che “prende molto sul serio la sicurezza dei propri clienti, dei rider e dei ristoranti che collaborano con la piattaforma” manda più o meno lo stesso messaggio, stesse indicazioni e chiosa: “Non svolgere alcuna prestazione in caso di malattia o se si avvertono i sintomi del coronavirus”.

La lettera del team MyMenu-Sgnam inizia così: “Gentile collaboratore, da sempre abbiamo a cuore la tua incolumità e in questo momento di difficoltà la nostra attenzione nei tuoi confronti è massima”. Il team ricorda le indicazioni dell’Oms, quelle dell’Istituto Superiore di Sanità e poi fornisce alcune informazioni operative invitando a igienizzare con maggiore frequenza le attrezzature con prodotti a base di alcol e cloro. In più aggiunge: “Qualora manifestassi sintomi da contagio o ne avessi avuto conferma, ti chiediamo di sospendere la tua collaborazione con la nostra azienda”.

“È la solita storia, – spiega Riccardo – scaricano tutti i costi sui lavoratori. Siamo noi che dobbiamo provvedere a nostre spese, prima e durante i tempi pressanti dei turni di lavoro, all’igiene personale e delle attrezzature. Con l’aggravante che si fa anche riferimento alla sospensione dell’attività lavorativa. Cosa accade in quel caso? Chi ci paga? Loro no di sicuro se siamo costretti a rimanere a casa. Ma mettiamo poi che le autorità competenti ritengano necessario chiedere alle aziende di sospendere il servizio per limitare il contagio. Noi che fine facciamo?”.

Eppure Bologna è un’avanguardia, la prima città in Europa ad avere approvato una Carta dei diritti dei lavoratori digitali che avrebbe anche un grimaldello da far valere con le imprese visto che parla anche di dispositivi di sicurezza. Eppure solo qualche mese fa una sentenza della Cassazione aveva equiparato i rider ai lavoratori subordinati. “Siamo collaboratori autonomi, oltre i 5 mila euro l’anno apriamo la partita iva. Lavoriamo così. Con le nuove regole da novembre chi di noi presta servizio in continuità godrà degli stessi diritti delle collaborazioni. E da qualche settimana abbiamo la copertura assicurativa Inail in caso di incidenti o malattia professionale. Ma questo non risponde alla domanda: se mi ammalo di coronavirus che copertura ho? Facciamo fatica. Sentiamo la fatica. Quella degli esercenti. Quella dei clienti. Ricade anche quella sulle nostre spalle”.

Che poi le spalle sono quelle sovraccariche di tutti i precari, del precariato di ogni tipo e di ogni settore. “Con tutte le nostre specificità, alla fine non siamo diversi dagli altri ‘atipici’, l’altro giorno in piazza c’erano gli educatori. Noi con loro. Perché questa crisi, come tutte, ci espone, ci mette in prima linea. Hanno trasformato un diritto in un privilegio e questa fragilità ne è la conseguenza”.