Due anni fa Marco Travaglio pubblicava un bel libro che si intitolava “La scomparsa dei fatti”. Ora è tempo di scriverne un altro: “La scomparsa dei giornalisti”. Perché quello che sta succedendo adesso è che non sono solo le notizie ad essere omesse dai giornali, ma gradualmente gli stessi giornalisti. È un terribile circolo vizioso: certi giornali a volte non raccontano la verità, la gente li compra sempre meno, i giornalisti sono sempre più a rischio e quindi finiscono per passare le veline, la versione edulcorata della realtà, attualmente a uso e consumo di Berlusconi and Co. Per far ciò - gli editori lo sanno bene - basta uno stagista. Senza nulla togliere allo stagista, che magari è più motivato e capace di tanti vecchi colleghi che popolano le redazioni.

Certo gli anziani, i garantiti, sono un problema. Rappresentano un mondo che non c’è più, e gli strali d’odio per loro arrivano da tutte le parti. Dalla proprietà che pensa solo al giorno in cui potrà festeggiare il loro pensionamento più o meno anticipato, e dai giovani (da quelli stabili perché non guadagneranno mai come loro, dai precari perché non c’è neppure bisogno di dirlo). Eppure, gli anziani giornalisti sono come i panda, andrebbero preservati perché hanno conosciuto un mondo che è scomparso: quello in cui i giornalisti potevano provare ad essere liberi. Scriveva parecchi anni fa Mario Pannunzio: “Per essere un buon giornalista basta saper dire di no al direttore e al redattore capo”. Ma oggi chi può permettersi di farlo? Chi è ricattato perché non sa se riuscirà mai ad avere un contratto da giornalista, praticando la professione magari da dieci anni? Chi è assunto, ma è consapevole che se perde il gradimento del direttore o della proprietà finisce a scrivere brevi, e viene rapidamente sostituito con un nuovo precario-schiavo più fedele?

Perché nel giornalismo il dramma dei precari è parte di un problema più grande. Oggi, sono in pericolo tutti, anche gli assunti ancora lontani dalla pensione. All’ordine del giorno è l’estinzione dei giornali. L’ultima copia del New York Times quando uscirà? Secondo i sussurri di un importante editore nostrano, nel giro dei prossimi cinque anni. Nessuno è al sicuro. Il rischio licenziamento è una realtà concreta. Chi può, cerca di andare in pensione subito: se si ha ancora accesso alla pensione retributiva, di vecchiaia, si corre e si lascia a quelli che verranno la misera pensione contributiva.

La crisi e i tagli
Per chi sta in mezzo, il futuro è incerto. I grandi gruppi editoriali non godono di buona salute e neppure i piccoli. Ma fermiamoci ai grandi, che danno la linea. Il gruppo Espresso è quello che più chiaramente ha detto che i suoi conti vanno male, quasi enfatizzando le perdite per poter mandar via un po’ di gente senza barricate. Alla Stampa, in un colpo solo la proprietà ha deciso di tagliare integrativo e rimborso per l’aggiornamento culturale (circa 5000 euro netti in meno all’anno per ogni giornalista) e preannuncia lo stato di crisi. Al Corriere fanno i vaghi, il gruppo è enorme e il patto di sindacato tanto numeroso che solo per mandare una comunicazione ci si mette una mezza mattinata. Quindi, le notizie circolano poco e con lentezza. Tuttavia i segnali negativi non mancano: Playradio, la radio che l’Rcs aveva inaugurato in grande stile nel 2005, è già morta e sepolta.

Per i piccoli solo una storia: il travaglio di Liberazione. Il giornale di Rifondazione comunista a rischio chiusura per i minacciati tagli ai giornali di partito, ha un bilancio molto negativo. E allora qual è la strada maestra dei risanatori rifondaroli: tagliare i giornalisti. Dovrebbero essere la metà secondo il piano di ristrutturazione.

Questo per dire della carta stampata. Ma in tv le cose non vanno molto meglio. Alla Rai, per esempio. Mentre la deregulation dei rapporti di lavoro fila come un treno, il servizio pubblico è una delle poche aziende dove la legge Damiano sulla stabilizzazione del precari è stata attuata. Perché la destra, che vuole riportare i rapporti di lavoro ai bei tempi di prima dello statuto dei lavoratori, che parla di contrattazione individuale e spacca il fronte sindacale, non ha voluto equiparare i lavoratori Rai a quelli, per dire, della ricerca? La risposta è facile: il consenso si costruisce con la tv, e quindi guai a mettersi contro i giornalisti Rai. Risultato: la pur sacrosanta stabilizzazione di migliaia di persone che lavoravano da anni in Rai senza continuità e senza certezze, diventa un altro strumento per fregare gli ultimi arrivati. Perché è prevedibile che la Rai blocchi i nuovi contratti a tempo determinato per non creare nuovi precedenti che possano portare ad altre assunzioni, e perché è tempo per lo sfruttamento intensivo dei nuovi arrivati.

Il resto del panorama non è più esaltante: a La7 Giovanni Stella, nuovo amministratore delegato, vuole mandare a casa 25 giornalisti, senza se e senza ma. E comunque c’è chi scommette che l’intero canale sia destinato a scomparire per giochi politici ed economici molto più grandi dei buchi di bilancio.

Com’era? “Giornalismo: sempre meglio che lavorare”, diceva Montanelli. Sempre meglio lavorare ma con un po’ di dignità, si direbbe oggi.