La sera del 10 marzo 1948 Placido Rizzotto, 34 anni, partigiano, socialista, segretario generale della Camera del lavoro di Corleone, è sequestrato da un gruppo di persone guidato da Luciano Liggio

Lo circondano in strada a Corleone, lo caricano sulla 1100 di Liggio, lo portano in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiano a sangue e gli fracassano il cranio. Poi fanno sparire il corpo.

La testimonianza

“Ho visto con i miei occhi il sequestro di Placido Rizzotto - confesserà circa sessanta anni dopo Luca, al tempo dell’intervista pensionato ottantenne - La sera di quel 10 marzo 1948, ero un ragazzo di appena vent’anni. Stavo percorrendo via Bentivegna per tornare a casa, ero arrivato all’altezza di via San Leonardo, proprio davanti alla chiesa, quando vidi alcune persone che discutevano animatamente, quasi litigando. Tra queste, riconobbi Rizzotto, lo sentii urlare “Adesso basta, lasciatemi andare!”. Ma quelli non lo lasciarono andare. Anzi, l’afferrarono a forza e lo trascinarono dentro una macchina scura col motore già acceso. Allungai il passo, spaventato, rientrai a casa e non dissi niente a nessuno, nemmeno a mio padre. Questa è la prima volta che parlo di quella sera, di quella terribile sera di marzo, in cui sparì il segretario della Camera del lavoro … La gente penserà che sono stato un vigliacco – dice – e forse lo sono stato davvero. Allora, però, personaggi come Luciano Liggio e i suoi “compari” tenevano nel terrore tutti i corleonesi. Ed io avevo solo vent’anni…” (Dino Paternostro, Quella sera vidi gli assassini di Rizzotto, in «La Sicilia», 6 marzo 2005).

Luca non è, però, l’unico testimone del rapimento. 

L'altra vittima: Giuseppe Letizia

Anche Giuseppe Letizia, 12 anni, assiste all’omicidio.

La notte del delitto Giuseppe è nelle campagne corleonesi con il proprio gregge. Il giorno dopo, delirante a causa della febbre altissima, viene accompagnato dal padre all’Ospedale dei Bianchi, diretto dal capomafia di Corleone Michele Navarra, mandante proprio dell’omicidio di Placido Rizzotto.

Nel delirio della febbre il ragazzo racconta di un contadino assassinato nella notte. Curato con un’iniezione, Giuseppe morirà ufficialmente di tossicosi.

Sarà il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ad indagare sul delitto Rizzotto: il lavoro dell’ufficiale, destinato a divenire un nome celebre nel corso dei decenni successivi, porterà all’incriminazione di Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura che tuttavia, alla fine del 1952, verranno assolti per insufficienza di prove.

Per uno strano scherzo del destino, attorno all’omicidio di Placido Rizzotto ci sarà una convergenza di giovani uomini che diventeranno noti: da una parte Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre, giovane studente universitario che sostituirà Rizzotto alla guida dei contadini, dall’altra, Luciano Liggio e i suoi uomini che arriveranno ai vertici della mafia.

La reazione della Cgil

Il rapimento di Placido Rizzotto scuote le coscienze e immediata è la presa di posizione della Cgil.

Di fronte all’inerzia del governo nel condurre le indagini, la Confederazione decide di dare un premio di mezzo milione di lire a chiunque darà notizie utili a ritrovare Rizzotto ed a scoprire i colpevoli del delitto: una cifra importante se si pensa che nel 1950 lo stipendio medio di un operaio è di 25/30000 lire circa.

Ma nonostante gli appelli e gli sforzi fatti il corpo non sarà ritrovato e con il passare degli anni e la scalata al potere mafioso di Liggio per lungo tempo a Corleone di Placido Rizzotto non si parlerà più.

Il ritrovamento 

Il 7 luglio 2009 all’interno della foiba di Rocca Busambra a Corleone vengono rinvenuti resti umani.

Nel marzo 2012 l’esame del dna, comparato con quello estratto dal padre di Placido, Carmelo Rizzotto, morto da tempo, confermerà l’appartenenza al sindacalista siciliano dei resti rinvenuti.

Il 16 marzo 2012 il Consiglio dei ministri deciderà per Placido Rizzotto i funerali di Stato, svoltisi il 24 maggio 2012. 

Quel giorno a Corleone è idealmente presente tutta l’Italia che combatte per la legalità e la giustizia sociale.

C’è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ci sono i vicepresidenti di Senato e Camera, Chiti e Bindi, il parlamentare europeo David Sassoli, Walter Veltroni componente dell’Antimafia. Ci sono Emanuele Macaluso (già segretario generale della Cgil Sicilia) e l'allora segretaria della Cgil, Susanna Camusso.

Tanti i giovani, gli studenti, la gente comune, tra le bandiere della Cgil, gli striscioni dell’Arci e di Libera.

C’è Placido Rizzotto, nipote del sindacalista, che afferma commosso: “Zio Placido riposa in pace, ora tocca a noi vincere”.

“Il ritrovamento dei resti di Placido Rizzotto e i funerali di oggi segnano una nuova sconfitta per la mafia - scriverà nel suo editoriale in prima pagina su l’Unità Guglielmo Epifani - Quello che si voleva nascondere per sempre è riemerso dal buio, suscitando nuove emozioni e offrendo nuove ragioni nell’impegno di lotta contro tutte le mafie. Il luogo del delitto, Corleone, diventa il luogo dell’omaggio e della riconoscenza di tutto il paese. Il martire del lavoro diventa così un martire della democrazia. La sua tomba è destinata a diventare uno dei luoghi del pellegrinaggio laico in memoria delle vittime, e il suo nome forse tornerà ad avere un significato per molti e soprattutto per le nuove generazioni”.

“Diciamolo che Rizzotto denunciava la mafia - tuonerà davanti al cimitero di Corleone quel 24 maggio don Ciotti - e che in questi 64 anni Placido Rizzotto ha continuato a parlare da quella fessura della terra per bocca di Giuseppe Letizia, il ragazzino di 12 anni che vide gli assassini e fu ucciso, per bocca del giovane Carlo Alberto Dalla Chiesa che condusse le indagini e di Pio La Torre, successore di Placido alla Camera del lavoro di Corleone. Lo spirito di Placido Rizzotto ha continuato e continua a vivere nei tanti che le sue lotte non si sono limitati a ricordarle ma le hanno assunte come un grande impegno. (...) Placido Rizzotto, però, oggi ci chiede una cosa: ci chiede di aprire gli occhi, di non ripiegarci negli egoismi e nelle paure, nell’indifferenza e nella protesta sterile, di non scaricare sugli altri le nostre omissioni e le nostre responsabilità. (...) Contro la mafia è il noi che vince, la vittoria non è opera di navigatori solitari”.

“Non si nasce schiavi o padroni - diceva del resto lui stesso - chi ci vuole diventare ci diventa. Noi dobbiamo restare uniti, compagni, perché da soli non si cambiano le cose”.

Perché da soli non si cambiano le cose.