Teresa Noce resterà per sempre nel firmamento della Resistenza e della nostra democrazia. Nel 43° anniversario della morte, la ricordiamo attraverso una pagina della sua biografia poco nota.

Nata a Torino il 29 luglio del 1900 da una famiglia poverissima, Teresa Noce comincia a lavorare a sei anni consegnando il pane, poi come stiratrice, sarta, tornitrice alla Fiat. Nel suo romanzo autobiografico, Gioventù senza sole, racconta la sua giovinezza torinese e la perdita del fratello maggiore: “Fu terribile - scriverà - Non mi rassegnai alla morte di mio fratello. Non potevo e non era giusto. Non avevo che lui. Il dolore, fin da allora, mi si trasformò in furore e in desiderio di lotta”.

Nel Pci dalla sua nascita (nel 1921), Teresa Noce espatria nel 1926 con il marito Luigi Longo prima a Mosca, poi in Francia. A lei che si era autodefinita povera, brutta e comunista, Palmiro Togliatti darà il nome di battaglia di Estella. Quando il segretario glielo comunica, Teresa arrossisce ed allora Togliatti le dice ridendo “Va bene. Così nessuno risalirà a Voi”.

L'impegno per le donne

Nel 1936, dopo aver fondato a Parigi con Xenia Sereni il mensile Noi Donne è con Longo in Spagna, dove cura la pubblicazione de Il volontario della libertà, giornale degli italiani nelle Brigate internazionali.

Rientrata in Francia allo scoppio della Seconda guerra mondiale affina il suo coraggio per un periodo d'intensa lotta partigiana come dirigente dei gruppi di resistenza tra i lavoratori stranieri della Mano d’opera immigrata (Moi), legati ai francstireurs, gruppi di azione clandestina della Resistenza francese che alternavano la requisizione di case a veri e propri attentati contro i tedeschi.

Per non essere scoperta, Estella viene ospitata e nascosta a Marsiglia presso la famiglia immigrata Livi, nella camera lasciata vuota dal giovane cantante Ivo che di lì a poco sarà conosciuto come Yves Montand.

Questi non era ancora famoso come lo è ora - scriverà Teresa Noce - nel 1941 era soltanto un ragazzo che, per non essere preso dai tedeschi e mandato in Germania, cercava di stare il più possibile lontano da casa cantando negli avanspettacoli di provincia e facendo le «claquettes». Perciò la sua camera era quasi sempre libera ed i suoi genitori, bravi compagni antifascisti che avevano dovuto emigrare a Marsiglia come tanti altri, me l’offrirono volentieri. La casetta dei Livi (come si chiama in realtà Yves Montand) si trovava alla periferia di Marsiglia e comprendeva anche un giardinetto e un negozio di parrucchiere condotto dalle figlie. Mi ci trovai benissimo. (…) Con l’aiuto delle sorelle parrucchiere, riuscii anche a cambiare aspetto, come richiedeva la copertura che mi si stava preparando. Le sorelle di Yves Montand mi depilarono le sopracciglia, dando una nuova linea alla fronte e agli occhi; poi mi ossigenarono i capelli e mi fecero una bella permanente, cambiando completamente il mio tipo di pettinatura solito. Quando mi guardai nello specchio, non mi riconoscevo più. Le brave ragazze mi insegnarono anche a truccarmi e mi raccomandarono di non dimenticarmi di decolorare la radice dei capelli quando non avessi avuto il tempo di andare da loro. Così trasformata, ero pronta ad assumere una nuova identità e ad iniziare il lavoro più impegnativo e pericoloso. Si trattava, prima di tutto, di rintracciare i quadri militari che avevano combattuto in Spagna, o che comunque avevano esperienza e capacità militari. Bisognava far fuggire quelli che erano nei campi, se non si riusciva a farli rimettere in libertà con qualche pretesto.

Nonostante le precauzioni adottate, durante una missione a Parigi all’inizio del 1943 Estella viene nuovamente arrestata e deportata prima nel lager di Ravensbrück, poi in Cecoslovacchia, dove a Holleischen le toccano i lavori forzati in una fabbrica di munizioni (della esperienza di lotta condotta all’interno dei campi di concentramento, ne farà un bel libro dal titolo Ma domani farà giorno).

Il rientro in Italia

Tornata in Italia nel 1945 è nominata alla Consulta e nel 1946 è la prima degli eletti alla Costituente della sua circoscrizione, una delle più votate del Pci a livello nazionale (“Teresa - scrive Graziella Falconi - diventa capolista in due circoscrizioni Modena - Reggio e Parma - Piacenza, venendo eletta in entrambe. Campagna elettorale faticosa, sempre in macchina, sempre a parlare. Ma la votano persino le suore”).

Rimane in Parlamento per due legislature, durante le quali presenta la proposta di legge per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri e un’altra, insieme a Maria Federici, che prevedeva eguale salario per eguale lavoro per donne e uomini.

Intanto lascia la casa romana e si trasferisce a Milano, dove può occuparsi più da vicino della Fiot, sindacato dei tessili, di cui è Segretaria. Nel 1953 scopre da un trafiletto comparso sul Corriere della Sera che “Luigi Longo e Teresa Noce hanno ottenuto a San Marino l’annullamento del loro matrimonio”. Estella - dopo aver chiesto inutilmente che fosse il Partito a farlo - invia al giornale una smentita, salvo poi scoprire che era tutto vero e che addirittura il marito aveva falsificato la sua firma. Inizia così, tristemente, la sua parabola discendente. I compagni con cui aveva condiviso anni di lotte avalleranno il comportamento di Longo e sarà lei, alla fine, a essere messa sotto accusa.

Lei stessa racconterà:

Ne parlai a Di Vittorio che sapevo essere stato uno dei compagni contrari alla posizione della Direzione e alla mia esclusione da questa. Di Vittorio cercò di dissuadermi. Se proprio fossi stata decisa, avrebbe allora appoggiato la mia richiesta di lavorare alla Federazione sindacale mondiale. Ma pensava che fosse mio dovere rimanere, nonostante tutto, in Italia, dove i quadri sindacali femminili erano così pochi. (…) Giunsi a un compromesso: me ne sarei andata per qualche tempo a Parigi. Tra le vecchie amiche del carcere, tra le compagne scampate con me ai campi della morte avrei trovato conforto. Forse avrei potuto dimenticare quello che era il più grave trauma, politico e personale, della mia vita. Grave e doloroso più del carcere, più della deportazione.

Grave e doloroso più del carcere, più della deportazione.