Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta il Sud dell’Italia è attraversato da diversi movimenti di rivendicazione sociale. 

Le organizzazioni di estrema destra rispondono a questa ondata di protesta da un lato con una serie di attentati dinamitardi, dall’altro tentando di accreditarsi al grido di ‘Boia chi molla’ come rappresentanti degli interessi della popolazione in lotta.

Sono i giorni della contestazione e della violenza politica. Reggio Calabria rivendica il diritto di essere capoluogo di regione, con ogni mezzo, a ogni costo. 

“Specie nei quartieri popolari - raccontava ad Oriana Fallaci un latitante Ciccio Franco - v’erano tanti ragazzi che ritenevano che Reggio potesse esser difesa dai partiti della sinistra o di centro-sinistra. E, dopo la posizione assunta dai partiti di sinistra e di centro-sinistra contro Reggio, questi ragazzi hanno ritenuto di dover rivedere la loro posizione anche politicamente. Molti, oggi, fanno i fascisti semplicemente perché ritengono che la battaglia di Reggio sia interpretata in modo fedele solo dai fascisti”.

Il 15 luglio 1970, a Reggio Calabria, durante il secondo giorno di sciopero cittadino per rivendicare il capoluogo regionale, vi sono ripetuti violenti scontri tra dimostranti e forze dell'ordine. 

Nella tarda serata, Bruno Labate, 46 anni, ferroviere iscritto alla Cgil, è rinvenuto esanime in una strada del centro cittadino (morirà durante il trasporto in ospedale). 

Le circostanze della sua morte non saranno mai chiarite. L’autopsia parlerà di morte per compressione del torace con impedimento del mantice respiratorio.

Il bilancio finale dei ‘Fatti di Reggio’ sarà di cinque morti (il ferroviere Bruno Labate, l’autista Angelo Campanella, gli agenti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti, il barista Angelo Jaconis), circa 2.000 feriti, un migliaio di arresti e denunce, danni per miliardi di lire. 

Per mesi la città sarà barricata, a tratti paralizzata dagli scioperi e devastata dagli scontri con la polizia e dagli attentati dinamitardi. La calma verrà ristabilita solo dopo 10 mesi di assedio con l’inquietante immagine dei carri armati sul lungomare della città.

Ciccio Franco - principale ispiratore della rivolta - sarà eletto nelle fila del MSI al Senato nel 1972. Nello stesso anno, in ottobre, i sindacati metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil (insieme ai sindacati degli edili ed alla Federbraccianti Cgil) organizzeranno una grande manifestazione di solidarietà a fianco dei lavoratori calabresi.

Verso le 17 del 22 luglio 1970, all’inizio della rivolta del Boia chi molla e meno di un anno dopo la strage di Piazza Fontana, nei pressi della stazione di Gioia Tauro, deraglia il treno Freccia del Sud diretto da Palermo a Torino provocando la morte di sei persone (Rita Cacicia, Rosa Fassari, Andrea Gangemi, Nicoletta Mazzocchio, Letizia Concetta Palumbo e Adriana Maria Vassallo) e il ferimento di altre 70 circa. 

Sul treno del Sole ci sono duecento passeggeri. 

Lavoratori pendolari che tornano su dopo un soggiorno in famiglia, un gruppo di pellegrini diretto a Lourdes, viaggiatori occasionali. 

La scena che si presenta agli occhi dei soccorritori è tragica: alcuni vagoni sono schiacciati tra loro e le manovre di soccorso sono rese ancora più faticose dal forte caldo. Molti sono incastrati tra le lamiere, altri riescono ad uscire dal groviglio di ferro dai finestrini.

Nella prima fase delle indagini, si ritenne che il fatto fosse stato dovuto al cedimento strutturale di un carrello del treno (il questore Emilio Santillo - accorso sul luogo - identificherà le cause del deragliamento con “lo sbullonamento del carrello n° 2 del corpo della nona vettura”); più tardi, alla negligenza del personale che era alla sua guida. Solo molti anni dopo sentenze definitive accerteranno che si era invece trattato di un attentato dinamitardo.

La scena del disastro si presenta così: il locomotore, con le prime cinque carrozze che lo seguivano regolarmente agganciate, è fermo a 30 metri dalla stazione; la sesta vettura è deragliata su un asse, la settima è deragliata su quattro assi, come pure l’ottava (vagone letto). La nona vettura (cuccette di seconda classe) è ribaltata sul terzo e quarto binario dopo un volo di 50 metri  e ha divelto un palo di sostegno della linea aerea di contatto.

Il capostazione Teodoro Mazzù affermerà di aver udito “un botto tremendo” e visto “una colonna di fumo (che) si è subito innalzata alta dal convoglio deragliato. Una scena apocalittica. Il caos più completo. I passeggeri si buttavano giù dalle vetture, cercavano spasmodicamente di afferrare i loro cari, avevano il viso annerito dal fumo e le carni straziate dalle lamiere”.

I vigili del fuoco tagliano le lamiere per cercare di estrarre i corpi dei passeggeri (“Sul posto della sciagura, fra ululati di sirene e grida di disperazione, mentre la fiamma ossidrica cercava, ostinata, di agevolare il tentativo per strappare al groviglio delle lamiere gli ultimi corpi straziati…La scena del delitto si è presentata agli occhi dei soccorritori in tutta la sua gravità. Gente che fuggiva, calpestandosi. Membra umane che sporgevano sanguinanti dal groviglio. Corpi dilaniati, sfigurati. Pianti, isterismi, paura e disperazione. Tutto intorno valigie e fagotti”), aiutati nel loro lavoro dai reparti della celere e dai carabinieri di stanza a Reggio. I feriti vengono condotti agli ospedali di Reggio, Palmi, Polistena e Taurianova.

“Un mistero dimenticato - lo definirà Carlo Lucarelli - Talmente oscuro, talmente misterioso, che per tanto tempo nessuno ne ha saputo niente, dissolto quasi, coperto dalle nebbie nere di tanti altri grandi Misteri d’Italia”. 

L’ipotesi dell’attentato viene avanzata e sostenuta dalla maggior parte della stampa nazionale (il giornalista Mario Righetti del Corriere della sera sostiene questa tesi dopo soli tre giorni, presto supportato anche da altre testate; su l’Avanti addirittura si arrivò a citare il presunto rinvenimento di altro esplosivo, il 7 agosto), ma ci vorranno ancora tanti anni e tanti morti per arrivare ad una verità colpevolmente parziale, non completa, ancora da definire nel quadro di un’altra strage destinata a restare impunita (nel 1993 i collaboratori di giustizia Giacomo Lauro e Carmine Dominici confermeranno al giudice istruttore milanese Guido Salvini la presunta collusione tra ambienti d’estrema destra e ‘ndrangheta, sostenendo la diretta responsabilità di questi nei fatti di Reggio e nell’attentato di Gioia Tauro).