Il 29 gennaio 1952 Ernesto Alberti, colono dell’Appennino bolognese, scrive a Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, per sottoporgli il progetto di un apparecchio agricolo da lui ideato. 

Io sono un colono che abito nell’Appennino bolognese e precisamente a Savigno. Mi sono sforzato per ideare un apparecchio che possa servire ai nostri contadini nel lavoro di falciatura del grano. Si tratta di un apparecchio che va applicato a una falciatrice comune e che serve per spostare i covoni slegati senza aggravio di spese di mano d’opera per il contadino. Non sapevo a chi potermi rivolgere. Non ho mezzi per poter portare a termine il mio esperimento, che, come è naturale prevedere, ognuno che fa una cosa pensa sempre di averla fatta bene e che possa servire a qualcosa.
Mi sono rivolto a Lei per avere un consiglio, un suggerimento soddisfacente. Non avrei saputo chi altro fosse meglio di Lei poiché tanto bene fa a tutti i lavoratori. Ho allegato a questa mia un mio progetto. Un disegno del mio lavoro che mi sono fatto fare da un mio compagno. Al disegno ho fatto pure una breve relazione. So che vorrà ascoltarmi e so che Lei mi saprà dare tanti buoni consigli. Abbia pertanto anticipati ringraziamenti e gli auguri più sinceri di avere sempre più grande, una sempre più unita Cgil.

Dopo aver invitato la Confederterra a valutare anche tecnicamente la macchina, il 6 giugno 1952 Di Vittorio risponde ad Alberti sottolineando i pregi dell’apparecchio e consigliandogli di rivolgersi al Consiglio di gestione di qualche fabbrica emiliana per il suo possibile sfruttamento e la sua realizzazione.

Soltanto oggi sono in condizioni di fornirLe la risposta che attende, non avendo avuto prima gli elementi tecnici necessari per esprimere un giudizio sul Suo apparecchio. Sulla base degli appunti e del disegno schematico da Lei inviati alla Confederterra nazionale, e da questa esaminati, ed in seguito agli ulteriori chiarimenti da Lei forniti, la predetta Organizzazione ha espresso il parere che effettivamente l’apparecchio stesso può rispondere allo scopo e ritiene che in particolare ne potrebbero trarre un utile vantaggio, soprattutto ai fini di un sensibile risparmio nell’impiego di unità di lavoro, nelle operazioni successive al taglio, aziende di piccola e media ampiezza che non dispongono di sufficienti mezzi finanziari per acquistare macchine più complesse e costose, come la mieti-legatrice. Tuttavia la Confederterra esprime il parere che l’apparecchio stesso debba essere oggetto di più accurato esame dal punto di vista costruttivo – meccanico, da parte di esperti di macchine agricole, non solo, ma anche dal punto di vista della sperimentazione pratica. Poiché, pero, questa Confederazione non ha la possibilità di sperimentare direttamente l’apparecchio in questione, Le suggerisco di prendere prima contatto con i Consigli di Gestione di qualche fabbrica emiliana costruttrice di macchine agricole e successivamente con la Confederterra Nazionale, allo scopo di farsi consigliare in merito alla possibile utilizzazione della macchina. Gradisca frattanto i migliori auguri per la riuscita del Suo lavoro a molti cordiali saluti.

Queste lettere sono soltanto uno dei tantissimi esempi di corrispondenza tra Giuseppe Di Vittorio e la base.

“Ogni giorno giungeva a Di Vittorio una quantità immensa di lettere, da ogni parte d’Italia - ricorda la moglie Anita Contini Di Vittorio nelle proprie memorie - Una mole immensa, di fronte alla quale confesso di essermi sentita, talvolta, spaventata. Si rivolgevano a lui per i motivi più vari (…) Mancavano i mezzi per far studiare un figlio? Si scriveva a Di Vittorio con fiducia (…) Un paralitico chiedeva una carrozzella per poter uscire qualche volta di casa. Dei genitori chiedevano a lui un aiuto “per sposare i figli” che non possedevano nulla. Una famiglia minacciata di sfratto si rivolgeva a lui e così l’infortunato sul lavoro o il mutilato di guerra. Accadde più di una volta che si rivolgessero a lui marito e moglie, perché egli dicesse la parola che poteva rimetterli d’accordo, e salvare l’unita della famiglia. Di Vittorio pretendeva che si rispondesse con grande attenzione a tutti. Guai se una sola lettera rimaneva inevasa!”.

A Di Vittorio scrivono in effetti - e l’Archivio storico Cgil nazionale gelosamente ne conserva gli originali - invalidi e pensionati di guerra, artigiani, invalidi civili, orfani, vedove, lavoratori senza pensione, pensionati, perseguitati politici, operai, emigrati, maestri - anche di scherma -, carabinieri, persino preti (alla segreteria della Cgil scrivono anche delle suore, chiedendo la tessera!). Cittadini di ceto e condizione sociale molto diversi che confidano al segretario, ma anche e forse soprattutto all’uomo Di Vittorio esigenze, inquietudini, progetti. E Di Vittorio, da buon sindacalista, ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, quando può, interviene, ma soprattutto risponde, risponde a tutti. 

Le lettere permettono di raccontare mille storie diverse: quelle dei ragazzi (10-14 anni) del Villaggio Sandro Cagnola (La Rasa, Varese), istituito con lo scopo di “assicurare l’avvenire ai figli dei compagni caduti” (il villaggio ospita, tra l’altro, i figli dei non sopravvissuti all’eccidio di Portella della Ginestra); quelle dei tantissimi perseguitati politici; quelle delle donne. Donne che, condividendo una sorte purtroppo comune,  raccontano di aver contratto debiti per sopravvivere, di avere arretrati nel pagamento dell’affitto di casa, nei negozi di alimentari. Questa coralità non impedisce che nelle lettere emergano o anche semplicemente trapelino accenti quasi confidenziali, o particolari personali: c’è chi narra di essersi divisa dal marito “per contrari e opposti sentimenti politici” o chi espone la sventura di essere “vittima di gelose piccinerie che si accaniscono sulla parte debole della società, utilizzando stereotipi volgari”, offrendo la comunicazione confidenziale anche aspetti gioiosi quali la nascita di un figlio, le nozze della figlia.

A Di Vittorio scrive l’operaio, il prete, il dottore, colui che vuole emigrare, il lavoratore che si sente danneggiato dallo sciopero dei servizi pubblici. Al “compagno onorevole” viene anche spedito di tutto: marce trionfali per pianoforte, progetti di apparecchi agricoli o invenzioni varie, foto di famiglia. Dal 1944 al 1957 (anno della sua morte), le lettere conservate in archivio consentono una narrazione diversa degli avvenimenti storici dell’Italia degli anni Cinquanta, raccontando in una forma squisitamente umana e personale delle rappresaglie, degli eccidi, della disoccupazione, in generale del clima politico, economico e sociale di un’Italia uscita da una guerra devastante in senso materiale e ancor più morale, che però combatte e lotta, senza arrendersi. Un’Italia che riconosce in Giuseppe Di Vittorio e nella Cgil una guida, un punto di riferimento, una casa.